Caporalato a Monfalcone, partiti i ricorsi in Cassazione
MONFALCONE Ricorso in Cassazione, in relazione al procedimento sul caporalato nell’appalto di Fincantieri. Si tratta di due dei sette imputati, condannati lo scorso 4 giugno dal Tribunale di Gorizia, a fronte della sentenza pronunciata dal Collegio giudicante, presieduto da Francesca Clocchiatti (a latere Nicola Russo e Gianfranco Rozze).
Sentenza per la quale erano stati applicati i patteggiamenti richiesti da sei imputati, negati invece dal precedente pubblico ministero Martorelli.
A presentare ricorso in Cassazione sono stati l’operaio bengalese Amin Ruhul, difeso dall’avvocato Mariarosa Platania, e Alessandro Rispoli, capocantiere alle dipendenze dei Commentale, difeso dal legale Giovanni Iacono.
Ruhul era stato condannato a tre anni e sei mesi, mentre Rispoli a tre anni e quattro mesi.
Entrambi i difensori, dunque, hanno impugnato la sentenza di condanna per i propri assistiti direttamente davanti alla Corte di Cassazione, in virtù dei patteggiamenti applicati dal Tribunale di Gorizia. Con ciò chiamando in causa le modalità stesse di applicazione del patteggiamento, al fine di verificarne la correttezza considerando che il giudice sia tenuto a vagliare la presenza di eventuali elementi intercorsi e utili al proscioglimento.
Per quanto riguarda, in particolare, la posizione di Amin Ruhul, nel ricorso viene richiesto l’annullamento della sentenza di primo grado per violazione della legge penale poichè, secondo la difesa, il Tribunale non ha disposto la sentenza anche in lingua bengalese.
Viene, inoltre, contestata l’associazione a delinquere, che il procedimento non ha configurato in modo inequivocabile quale vincolo e disegno criminale, se non trattandosi piuttosto di un mero concorso nei reati.
Il ricorso passa in rassegna, inoltre, una serie di singoli casi di estorsione, mettendo in dubbio la validità dell’acquisizione delle Sit (sommarie informazioni testimoniali) rese da alcuni testi, poi sottratti al controesame nel processo, non tenendo pertanto conto del possibile trasferimento. Chiamate in causa anche le minacce, elemento costitutivo dell’estorsione, risultando, per il difensore, equivoche le dichiarazioni rese dai testi e anche, in alcuni casi, assolutamente non comprovate.
Quanto a Rispoli, la difesa sostiene come la sentenza di condanna sia carente di motivazioni, non specificando i termini effettivi delle minacce attribuite al proprio assistito, nè le persone rimaste vittime. La difesa, nel ricorso, lamenta il ridimensionamento del ruolo di Muhammad Hossain Muktar, conosciuto come Mark, ritenuto invece significativo ai fini dell’avvio delle indagini e del processo celebrato dal Tribunale di Gorizia.
Nè sussiste, per il legale, il reato associativo non avendo comprovato il ruolo di Rispoli in questo contesto, ritenendo peraltro che non fosse a conoscenza dei comportamenti del proprio datore di lavoro.
Il difensore di Rispoli, inoltre, sostiene come «la credibilità di alcune delle persone offese sia stata smentita dal Collegio, che non ha tuttavia valutato la possibilità di una vera e propria strategia di dichiarazioni tendenziose, almeno di una parte delle persone offese, anche per la mancanza di un adeguato sistema di traduzione delle dichiarazioni già in fase di indagini».
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