Caos in Bosnia, brucia anche Sarajevo

La Rivolta civile dopo Tuzla dilaga in tutto il Paese. Oltre cento feriti nella capitale. Assaltata la presidenza federale

 Trent’anni fa, mentre il mondo si specchiava nella faccia più bella e pulita della Jugoslavia alle Olimpiadi invernali di Sarajevo, ardeva la fiamma olimpica. Poi arrivarono la crisi, il collasso della Federazione, la guerra, la pulizia etnica e poi la pace, due decenni di malgoverno in un Paese diviso, privatizzazioni selvagge, leader politici interessati solo al potere e ai loro lauti stipendi. E su tutto i flagelli di povertà e disoccupazione – 550mila i senza lavoro registrati -, niente riforme, zero speranze. E ora a bruciare, invece della torcia olimpica, è ormai l’intera Bosnia, in quella che è stata battezzata “gradjanski bunt”, rivolta civile.

Bosnia che ieri, terzo giorno di proteste, ha assistito alle più massicce e violente manifestazioni di piazza della sua storia recente. Epicentro iniziale, sempre Tuzla, un passato dal cuore industriale, un presente di decadenza. Tuzla dove ieri a migliaia sono scesi di nuovo in strada dopo essersi organizzati attraverso passaparola e Facebook. Facebook su cui, segnale della collera crescente, erano in precedenza apparse foto di ragazzini con passamontagna e maschere antigas, mazze chiodate in pugno, link ad articoli su come preparare bottiglie molotov. E rabbia è stata. In piazza erano 10mila, pensionati, veterani di guerra, lavoratori, una moltitudine di giovani senza lavoro. Da questi ultimi è partito l’assalto finale a quello che i dimostranti di Tuzla hanno da giorni eletto a simbolo della malapolitica locale, la sede del governo del Cantone. Grattacielo assaltato a colpi di pietra verso le 13.30 da centinaia di ragazzi, che urlavano «questa è Tuzla, questa è la Bosnia».

Poi, l’escalation, mentre la polizia si ritirava, sopraffatta dalla forza della massa. Massa, o meglio le sue giovani avanguardie, penetrata nel palazzo poco prima delle due del pomeriggio. Palazzo devastato e saccheggiato. E incendiato, mentre un’alta colonna di acre fumo nero si levava nel centro della terza città bosniaca. E le onde sismiche del terremoto di Tuzla si sono rapidamente propagate a un centinaio di chilometri di distanza, a Sarajevo. Sarajevo dove alcune migliaia di persone, in gran parte ragazzi, hanno prima bloccato il centro della capitale bosniaca e poi attaccato il palazzo del governo del Cantone di Sarajevo, dopo aver bombardato di pietre e bottiglie la polizia in tenuta antisommossa. Anche qui, vetri rotti, urla «lopovi, lopovi», ladri, ladri, e l’irruzione nel palazzo, devastato e incendiato, mentre gli automezzi dei pompieri venivano bloccati. Subito dopo, fuoco anche nella sede della Presidenza tripartita bosniaca e poi in serata nei preziosissimi Archivi nazionali. Sarajevo, il cielo offuscato dai fumi degli incendi e dei lacrimogeni, dove in serata sono state spedite in strada persino le unità antiterrorismo e dove si sono registrati più di cento feriti, in gran parte poliziotti. Tuzla e Sarajevo che non sono state eccezioni. Anche a Zenica e Mostar le sedi dei Cantoni sono state date alle fiamme. E migliaia si sono riversati in piazza anche a Bihac, a Brcko e a Banja Luka, in Republika Srpska, dove si è sfilato pacificamente al grido «basta, vogliamo una vita migliore». Migliore, magari in una Bosnia unita e stabile, non in quella annichilita da anni di stallo politico ed economico e messa ora in ginocchio dall’arrivo di quello che il ministro della Sicurezza della Bosnia-Erzegovina, Fahrudin Radoncic, ha definito uno «tsunami» popolare «atteso». Atteso e comprensibile, perché, come si dice nei Balcani, qui «si sta zitti e si soffre» a lungo, ma poi quando esplode la rabbia tutto può succedere. E in Bosnia sta ormai esplodendo una polveriera. Oltre alle proteste spontanee e alla violenza da banlieue parigine di “hooligan” e adolescenti senza futuro, non si vedono al momento né leader né alternative politiche all’orizzonte.

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