Il Canale di Zaule dove si unirono il porto e l’industria di Trieste
Viaggio nella trasformazione dell’area industriale di Trieste tra guerra e dopoguerra. Il progetto di escavo del 1940 interrotto durante il conflitto fu ripreso dal Gma e divenne polmone per la manifattura
Lo scavo del canale navigabile nella piana di Zaule viene di rado menzionato nei libri di storia del capoluogo: eppure il progetto, nato negli anni Quaranta del Novecento e, come gran parte della Trieste industriale, realizzato poi negli anni Cinquanta, è quanto permise di avere la zona industriale. Si crea, a Zaule, una compenetrazione tra porto e industria: il canale navigabile porta i vantaggi del porto alle imprese e queste, a propria volta, consentono quella lavorazione delle merci dalle navi già presente in nuce a inizio secolo.
L’industria poi scomparsa
Il dizionarietto dell’Ezit del 1984 in tal senso è un involontario compendio di un’industria triestina destinata a un massiccio declino: dalla pasta Fissan, al colosso dei Grandi motori, alla statale Manifattura Tabacchi, al dominio del chicco nero con Cremcaffè e Illycaffè, all’industria Veneziani di sveviana memoria, alla carta di Smolars, ai mazzi di Modiano; e poi decine di autocarrozzerie, fabbriche e micro imprese specializzate. Quest’affollarsi di industrie capaci di fornire, negli anni Cinquanta e Sessanta, occupazione al 45% dei triestini fu reso possibile dalla radicale alterazione della piana di Zaule. Una zona tutt’oggi trasformabile e in trasformazione; e risiede forse in ciò la mancata memoria storica della Trieste industriale.
D’altronde, giungendo dalla sopraelevata nella zona industriale, le conseguenze della deindustrializzazione a cavallo tra gli anni Ottanta e i primi del duemila emergono con chiarezza, seppure tra segni d’andamento contrario quale il ritrovato dinamismo della logistica e la produzione della Bat.
L’assenza della ciminiera
Il primo segno è l’assenza di una ciminiera familiare ai triestini: era il “comignolo” dell’Italcementi, ormai avviata da tempo alla demolizione. La parte antistante al mare dovrebbe divenire un polo del freddo della Bell Group, capace di gestire prodotti anche a -28 gradi di temperatura. Il cementificio triestino, progettato nel 1938, fu successivamente sostenuto dal Governo militare alleato (Gma) nel 1950: la struttura, estesa su 230 mila metri quadrati, riceveva la materia prima (calcare e marna argillosa) dall’altopiano carsico tramite una teleferica di quattro chilometri, dotata di una capacità di 150 tonnellate all’ora.
Il canale navigabile
Lo sguardo abbraccia poi il canale navigabile, tutt’oggi l’elemento di spicco della piana di Zaule. Il Genio civile di Trieste formulò il progetto il 27 gennaio 1940, all’interno di un recupero della zona caratterizzata dalle tracce paludose e cariche di miasmi delle vecchie saline. Infatti il canale, scrivevano i documenti dell’epoca, «oltre a servire quale mezzo di comunicazione via mare, avrebbe fornito anche parte del materiale occorrente per la bonifica delle aree adiacenti al canale stesso».
Il ministero dei Lavori Pubblici approvò allora nel novembre 1940 un canale della lunghezza di mille metri e una profondità di 9, completo di banchine. I lavori iniziarono il 21 gennaio 1941, ma furono sospesi a causa del peggioramento del conflitto mondiale nel luglio 1943.
La ripartenza sotto il Gma
Il progetto giocava però un ruolo troppo importante, nel contesto del rilancio di una Trieste industriale, per il Gma che ordinò la ripartenza dei lavori nel marzo 1949. Dapprima la draga rifluente Etruria e poi la draga a secchie Adriatico penetrarono in profondità nella piana di Zaule, liberando oltre un milione di metri cubi di terra. Lo scavo venne poi sospeso e ricalibrato tra il novembre 1949 e il maggio 1950: il rettore dell’Università di Padova Ferro e il Magistrato delle acque di Venezia Alessi conservarono il chilometro di tracciato del canale, ma ne aumentarono la profondità a 12 metri, intuendo il futuro sviluppo delle navi merci e raddoppiarono la larghezza da 100 a oltre duecento metri. Spettò allora alla draga Bonaria e alla draga Etruria smuovere altri 800 mila metri cubi, il tutto finanziato con 780 milioni giunti in parte dall’Italia e in parte dal Gma.
Addio alle ultime saline
Fu creata, nell’occasione, anche una “canaletta” di circa 150 metri nella parte interna del canale, volta all’utilizzo di chiatte o imbarcazioni senza un eccessivo pescaggio. Furono poi, nei decenni successivi, le singole industrie come l’Italcementi e la Stock a realizzare punti di attracco e pontili; sebbene occorra ricordare il progetto del 1978 dell’ingegner Mario Pecorari onde costruire sulla sponda nord del canale 250 metri di banchine all’epoca assenti.
Scomparvero così, nel secondo dopoguerra, le ultime tracce delle saline interrate nel 1910 e della povera vita dei pescatori, di quanto Giuseppe Caprin già nel 1889 descriveva come «una miseria sopportata in pace», nient’altro che «un tugurio, in mezzo a lubrico limaccio».
Logistica e industrie
Logistica per spostare le merci e industrie per lavorarle; e se il primo elemento sopravanza ormai il secondo, rimane invece assoluto protagonista nella zona industriale il polo energetico, il carburante col quale l’intero processo portuale-industriale viene reso possibile. Si va dai Depositi costieri, oggigiorno in gestione a Seastock, all’ex raffineria Aquila, all’impianto della Siot, la cui movimentazione di greggio – le cosiddette rinfuse liquide – garantisce di anno in anno il primato al porto di Trieste, evidenziandone però la profonda natura di scalo tutto rivolto verso il mercato estero, specificatamente la macro area dalla Repubblica cesca, all’Austria, alla Baviera.
La Siot
Con alle spalle 9 miliardi e 500 milioni di lire, 11 società petrolifere internazionali e una partecipazione dell’Eni del 10%, la Siot nacque nel 1966 col compito di costruire la sezione italiana della Trans Alpine Pipeline (Tal). Fu la statunitense Bechtel Corporation a costruire il tratto italiano; la progettazione coinvolse la baia di Muggia per il terminale marino e l’area di Monte d’Oro per i depositi (l’Ezit acquistò oltre 1 milione di metri quadri di terreno). La prima petroliera giunse al terminale già nel 1967 e nell’ottobre del 1968 i primi rivoli dell’oro nero affluirono a Ingolstadt; già in quel solo anno l’oleodotto aveva movimentato 15 milioni di tonnellate di greggio che schizzarono presto a 20 nel 1970 e 30 nel 1973.
Lo status di infrastruttura strategica, di ganglio vitale dell’industria non solo triestina, quanto tedesca, spiegano come la Siot sia stata bersaglio il 4 agosto 1972 dell’attentato del gruppo terroristico palestinese Settembre nero, con l’esplosione di tre serbatoi e gravi danni ad altri due. Il rogo consumò lo stabilimento per giorni con colonne di fumo che si levavano fino a 6 chilometri d’altezza.—
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