Area di Campo Marzio, quella frontiera tra il porto e la città di Trieste
Prima i binari e l’industria, poi gli edifici residenziali: quest’incerto punto di incontro tra residenzialità, industria e porto tutt’oggi si presenta come un’area in via di trasformazione, non a caso oggetto dei progetti degli architetti
C’è una vasta e sottile zona di confine tra Porto Nuovo e città di Trieste, tra residenza e industria che tutt’oggi si estende dal molo Fratelli Bandiera, al Passeggio di Sant’Andrea, giungendo fino alla Sopraelevata e alle Torri d’Europa.
Il retroterra portuale aveva qui, un secolo fa, esteso le proprie radici industriali, volte alla lavorazione delle merci; e al contempo la città, dal secondo dopoguerra in poi e avvantaggiandosi della progressiva deindustrializzazione dell’area, ha ramificato a propria volta grattacieli e villette, centri commerciali e palazzine delle compagnie assicurative. Quest’incerto punto di incontro tra residenzialità, industria e porto tutt’oggi si presenta come un’area in via di trasformazione, non a caso oggetto dei progetti degli architetti.
L’ultimo esempio, dove si recupera il modello del polmone verde di Gleisdreieck a Berlino, è stato offerto dagli studenti di Potsdam con la mostra “Trieste: Hafen der Kulturen – Porto di culture” visitabile al Museo Sartorio.
Partendo dall’ex Lazzaretto, la prima struttura industriale presente è il vecchio mercato ortofrutticolo: costruzione in stile razionalista progettata nel 1930 e realizzata nel 1957 dalle forme funzionali e precise.
Povero fratello dell’architettura art nouveau della Pescheria e avveniristica del Mercato coperto, il vecchio Ortofrutticolo non di meno conserva una scala monumentale con gradini di pietra di Aurisina nella sezione centrale e la banchina frangiflutti oggigiorno basamento della cancellata perimetrale. Si discute da anni il trasferimento dell’Ortofrutticolo: sfumata l’opzione del Fresh Hub a Prosecco, l’ultima ipotesi prevedeva un riutilizzo dell’ex Manifattura Tabacchi.
Industria, ma soprattutto ferrovie: perno della sottile striscia retroportuale è la Triest Staatsbahnhof ovvero l’edificio della stazione di Campo Marzio nato nel 1906 onde convogliare le linee della Val Rosandra, della Transalpina e della Parenzana. I lavori d’interramento della zona, concomitanti alla costruzione del Porto Nuovo, consentirono di costruire una grande stazione progettata dall’architetto Robert Seeling su modello viennese: Maurizio Lorber la comparava alla stazione di Währigerstrasse, ma con influenze anglosassoni fornite dal lucernario in ferro e francesi dall’uso della lunetta presente nella Gare de l’Est a Parigi.
La stazione di Campo Marzio rinunciò nel 1935 alla Parenzana, nel 1945 alla linea viaggiatori per la Transalpina e nel 1959 alla linea di Erpelle. Oggigiorno il Museo Ferroviario è al centro di un restauro che continua dal lontano 2016; se ultimato si tratterebbe del secondo Museo Ferroviario più grande d’Italia, dopo Pietrarsa, oltre ad essere l’unico caso di una stazione trasformata in centro espositivo. Fondazione FS annunciava, quale ultima novità, di voler rifare la copertura di vetro e metallo demolita a causa dell’operazione “Ferro alla patria” durante la Seconda guerra mondiale.
E in quest’ambito sta venendo utilizzato proprio per il restauro della stazione lo spazio retrostante l’ex Centro meccanografico. In questo caso il restauro della nuova sede di Esatto di Trieste si presenta ormai compiuta: colori bianconeri e spazi moderni destinati ad essere inaugurati il prossimo marzo 2025. Il Meccanografico, risalente al 1969, fu un’importante centro di elaborazione di dati, dotato di un calcolatore a valvole all’epoca assai avanzato. Struttura disadorna sotto il profilo architettonico, ma con un’interessante disposizione degli spazi, specie per la presenza di un Auditorium.
La curva che porta al Passeggio Sant’Andrea introduce il “grande assente” dell’area prossima alla rotonda: la Fabbrica macchine Sant’Andrea tutt’oggi si aggira come un fantasma architettonico nella zona dalla nuova piscina Bruno Bianchi alla monumentale mensa in rovina del Crda. Nato quale Stabilimento Tecnico Strudthoff, la Fabbrica macchine consisteva nel 1853 in un fazzoletto di terreno con una fonderia e un’officina meccanica gestiti dall’ingegnere di Brema Georg Simon Strudthoff. L’attività presto decollò grazie alla sinergia coi vicini cantieri navali: la prima macchina compound di Trieste venne prodotta nel 1872 e la prima macchina verticale a triplice espansione nel 1887.
La Fabbrica si sviluppò con gradualità dall’originaria sede presso Sant’Andrea, ampliando la fonderia e l’officina di produzione delle caldaie. La produzione era diretta verso i motori marini delle navi, con una speciale enfasi verso le commesse militari dapprima dell’impero austriaco e poi del Regno d’Italia. Il continuo ammodernamento della struttura permise, già nel 1924, di acquisire la licenza dei motori a quattro tempi Burmaister e Wain (Copenhagen) adoperati per la coppia dei transatlantici Saturnia e Vulcania, all’epoca tra i più potenti del mondo; senza dimenticare, tra le tante eccellenze “motoristiche”, i Diesel Fiat a due tempi nel 1939 per la motorizzazione dei sommergibili.
La massima estensione della Fabbrica venne raggiunta negli anni Cinquanta, durante il faticoso rilancio del secondo dopoguerra: e fu in questo contesto che venne creata, tra il 1957-58, l’unica area oggigiorno sopravvissuta ovvero l’edificio per spogliatoi e mensa. Nel 1966 la joint venture Iri-Fiat rilevò la Fabbrica macchine, scegliendo di trasferire la produzione dei motori diesel nella nuova società Grandi motori Trieste. Il complesso edilizio della fabbrica, acquistato dal Lloyd Adriatico, venne demolito con l’unica eccezione dell’edificio ausiliario. Nel 2025 il manufatto, avvolto da una corona di alberi e sterpame, mantiene ancora l’ossatura principale composta da due corpi esagonali incastrati in un terzo volume con le scale. Unica sortita dell’architetto friulano Marcello D’Olivo a Trieste (con l’importante eccezione del Villaggio del Fanciullo), l’edificio presentava i primi due piani quali spogliatoi, il terzo e il quarto a mensa e il quinto a cucina. Le dimensioni, invero gigantesche, vengono però alleggerite dalle grandi finestre e dall’equilibrio tra mattoni a vista rossi e parti grigie. Man mano che lo sguardo sale infatti in alto le sezioni dei mattoni aumentano, alleggerendo l’impatto industriale dell’edificio. L’ultima proposta per l’ex mensa prevedeva, sotto l’egida di Enrico Samer, la trasformazione in una foresteria a vocazione sportiva, abbinata a zone di ristorazione e relax.
Costituisce l’ultimo lembo di questa zona industriale ancora però parte della città l’edificio abbandonato di via Italo Svevo: dietro il Gasometro e a fianco delle Torri d’Europa, lo jutificio ancora possiede le vetrate originarie ombreggiate dalla sovrastante sopraelevata. Trasformato in campo profughi per gli esuli negli anni Cinquanta, l’imponente jutificio dovrebbe ora divenire, come comunicato da un decreto di Asugi dello scorso novembre, la nuova sede del 118, previa demolizione dell’esistente fabbricato. —
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