Campi per richiedenti asilo: Budapest capitola e li chiude
Il capo di gabinetto del premier: «Ma è un rischio per la sicurezza europea». A chi faceva appello veniva negato anche il cibo. Sconfitta la linea dura di Orbán
BELGRADO Una decisione obbligata, presa all’improvviso e in maniera inaspettata. E nodale, anche perché rappresenta una sconfitta della linea dura anti-Ue del premier Viktor Orbán. Decisione dell’Ungheria, che ieri ha annunciato a sorpresa la chiusura dei campi di raccolta sorvegliati per richiedenti asilo allestiti negli anni scorsi sulla frontiera serbo-magiara, quelle “transit zone” che erano state definite come inumane prigioni per i profughi dalle maggiori organizzazioni per la protezione dei diritti umani, criticate anche da Bruxelles.
Non si tratta di una mossa pianificata, né di un ripensamento da parte di Budapest. La chiusura delle zone di transito-localizzate presso Roszke e Tompa, campi dove venivano segregati i pochissimi richiedenti asilo ammessi legalmente in Ungheria mentre attendevano una decisione sulla loro domanda di protezione, e coloro che dovevano essere espulsi, arriva dopo una sentenza pronunciata la settimana scorsa dalla Corte di giustizia europea. Corte che, interpellata sul caso di alcuni cittadini afghani e iraniani che erano entrati in Ungheria dalla Serbia attraverso la transit zone di Roszke e lì detenuti in attesa di espulsione, aveva emesso un parere giuridico di forte portata sulla natura e il funzionamento delle zone di transito, “smontando” le fondamenta legali delle stesse. Tra le altre cose, i giudici Ue avevano infatti stabilito che rinchiudere, come faceva fino a ieri l’Ungheria, i richiedenti asilo o i migranti da respingere nei campi chiusi alla frontiera è null’altro che «detenzione» a tutti gli effetti.
Inoltre, secondo le regole Ue, nessun richiedente asilo può essere detenuto solo perché non è in grado di provvedere al proprio sostentamento e non è ammesso che si decida di rimpatriare uno straniero senza che vi sia stato un esame approfondito della «necessità» e «proporzionalità» di questa misura. Infine, aspetto rilevante, la detenzione non deve superare «le quattro settimane», aveva aggiunto la Corte, ordinando la liberazione degli stranieri trattenuti illegittimamente.
La prima reazione magiara alla sentenza? Di irremovibilità, come quasi sempre accade. L’Ungheria farà il massimo per mantenere attive le transit zone, aveva assicurato il segretario di Stato alla Difesa, Szilard Nemeth. «Non accettiamo la sentenza», aveva rincarato il consigliere alla Sicurezza di Orbán, Gyorgy Bakondi. Ma ieri, la sorpresa. Prima le voci, poi confermate, sul trasferimento durante la notte tra mercoledì e giovedì di 300 richiedenti asilo dalle zone di transito in centri aperti, dove attenderanno l’esame delle richieste di protezione. Poi la conferma del capo di gabinetto del premier, Gergely Gulyas. L’Ungheria «è obbligata a rispettare il verdetto» e per questo «non possiamo fare altro che eliminare le transit zone» anche se è «un rischio» per la sicurezza europea», l’annuncio.
Gulyas, che ha definito «sventurata» la sentenza della Corte di giustizia, ha tuttavia ammonito che l’Ungheria non muterà la linea dura sui migranti. Le frontiere rimangono serrate, protette dal “muro” eretto nel 2015. E senza zone di transito – finora le uniche porte per entrare legalmente in Ungheria dalla Serbia - chi vorrà chiedere asilo a Budapest potrà farlo solo nelle ambasciate e consolati magiari all’estero. Ma il fatto che i campi circondati da barriere metalliche, container inospitali, dove ad alcuni ospiti lì alloggiati, che avevano presentato appello contro l’espulsione, non veniva neppure concesso cibo, è stato comunque letto da molti come un trionfo. —
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