Cameron: "L'Italia è accogliente, ma io amo la solitudine"

Lo scrittore americano presenta a Trieste il suo romanzo "Andorra" edito da Adelphi
Lo scrittore Peter Cameron fotografato a Trieste da Massimi Silvano
Lo scrittore Peter Cameron fotografato a Trieste da Massimi Silvano

Forse di Peter Cameron ce ne sono due. Uno è lo scrittore americano di Pompton Plains, che insegna scrittura all’università, scrive libri di successo come “Un giorno questo dolore ti sarà utile”, “Quella sera dorata” “Coral Glynn”. L’altro è il suo sosia italiano. Che fa impazzire i lettori del Belpaese, passa da un festival all’altro con grande successo. «Ma non sa una parola d’italiano», precisa lui.
In realtà, di Peter Cameron ce n’è uno solo. L’autore capace di stupire, ogni volta che pubblica un libro, anche chi ha già letto tutti i suoi lavori. E conosce il suo valore letterario. “Andorra” è l’esempio più recente. Pubblicato in Italia da Adelphi, nella traduzione di Giuseppina Oneto, pochi mesi fa, in America era uscito nel 1997. Eppure, anche se sono trascorsi diciassette anni, non ha perso nemmeno una virgola del suo fascino.
Ambientato in un’Andorra immaginaria, affacciata sul mare, che fa da specchio al divenire della storia, il romanzo segue l’arrivo a La Plata di Alex Fox. Un uomo in fuga dal suo passato che prova a reinventarsi lì la propria vita. E all’inizio, sembra avere trovato per davvero una sorta di piccolo paradiso. Ma poi, stritolato tra il possessivo affetto della famiglia Quay e l’ambiguo coinvolgimento dei coniugi Dent, finirà per ritornare dentro le tenebre da cui è arrivato.
Per parlare di “Andorra”, Peter Cameron è impegnato in un minitour italiano di fine agosto. Dopo Cortina, dove è stato ospite di “Una montagna di libri”, oggi alle 18 sarà alla Libreria Lovat, in viale XX Settembre a Trieste. Giovedì parteciperà a “Stasera parlo io” a Bologna e sabato al Festival della Mente di Sarzana.
Per la prima volta a Trieste, Peter Cameron si concede un cappuccino in piazza Unità prima di sottoporsi al rito dell’intervista.
«Non è strano, per me, parlare adesso di “Andorra”, che ho pubblicato nel 1997 - spiega -. Quando ho finito di scrivere un libro, mi separo da lui. Ma non faccio fatica, anche se è passato tanto tempo, a ricollegarmi con i vecchi lavori senza un senso di straniamento. Non c’è una cronologia ferrea nelle storie che invento. Certo, oggi lo imposterei in un altro modo. Eppure, mi sento in pace con le mie creature. Tutte, dalla prima fino a “Coral Glynn”».
Lo scrittore è un po’ un papà, allora?
«Credo di sì. I libri sono come figli per chi scrive. E quelli che rimangono con noi più a lungo, alla fine, vengono amati in modo particolare».
La Andorra che lei racconta, in realtà, non esiste...
«Quando ho scritto il romanzo, pensavo a un pubblico di lettori americani. Dovevano scoprire un po’ alla volta, seguendo il divenire della storia, che la mia Andorra non corrisponde a quella reale. Mi rendo conto che per gli europei l’approccio con il romanzo è diverso. Perché capiscono da subito che qualcosa, nella descrizione dei luoghi, non quadra».
Qualcuno c’è cascato nel suo gioco geografico-letterario?
«Credo che parecchi lettori americani si siano accorti solo alla fine che la mia Andorra sul mare, in realtà, non è quella che sta sui Pirenei, tra la Francia e la Spagna. In ogni caso, ho scelto apposta un luogo reale. Non l’ho inventato perché, mentre scrivevo, per me quella era la vera Andorra».
Alex Fox, il protagonista, fa quasi un viaggio iniziatico...
«“Andorra” è più una parabola che un romanzo. Voglio dire che il lettore può leggerlo come crede. Lo scrittore non deve mai entrare nelle interpretazioni. Certo, il mio Alex Fox subisce una trasformazione nel corso della storia. Cerca di allontanarsi dal proprio passato, prova a dimenticare. Ma si renderà conto quanto sia difficile farlo».
Gli amori difficili sono il tema che lega i suoi romanzi e i racconti. Perché?
«Un amore felice, corrisposto, difficilmente fornisce lo spunto per una buona storia. A me piace esplorare la trasformazione delle persone. Soprattutto, come riescono a modificarsi stando vicine. Ed è per questo che, al centro dei miei libri, ci sono soprattutto relazioni complesse».
Un laboratorio per leggere in profondità l’esistenza umana?
«Credo che l’amore sia un’opportunità di rivelarsi a chi ci sta accanto. Proprio per questo ho voluto scrivere “Andorra” in prima persona, lasciando che sia Alex Fox a raccontare la storia. Così possiamo osservare il suo mondo dall’esterno, ma anche dall’interno».
“Andorra” rivela l’anima thriller di Peter Cameron. Mai pensato di scrivere gialli?
«Questo, in effetti, è il mio unico libro così carico di suspense. E non è stato facile creare questo clima teso, elettrico. Perché non sono bravo a maneggiare situazioni ad alta tensione. E sarebbe molto difficile, per me, inventare storie del mistero. Anche se i thriller mi affascinano molto».
Dicono che James Sveck, protagonista di “Un giorno questo dolore ti sarà utile”, sia un anticipatore del movimento degli Indignati. È d’accordo?
«Mentre costruivo il personaggio non ci pensavo affatto. Per me James era una persona, con la sua allegria, la malinconia e tutti i problemi che si porta dietro. Se poi qualcuno lo vede come un fratello maggiore degli Indignati, mi sta bene. Io non l’ho inventato pensando a quello che stava succedendo, o sarebbe successo, nel mondo».
Sta scrivendo un libro nuovo?
«Sì, sto lavorando a un nuovo romanzo. Per il momento esistono solo dei pezzetti, dei frammenti. Posso solo dire che sarà una storia ambientata nel nostro tempo».
La scrittura: divertimento o tormento?
«Tutti i miei libri richiedono un lungo tempo di gestazione. Il problema è che, spesso, una storia parte in un modo, poi cambia strada facendo. Perché, per me, scrivere un romanzo non vuol dire solo crearlo, ma pensare, capire che cosa sta dentro i personaggi. Mi capita, a volte, di dover cambiare la parte iniziale perché, dopo un po’ di pagine, ho scelto di seguire una traiettoria completamente diversa».
Mai scritto un libro senza tanti tormenti?
«L’unico che è partito e arrivato alla fine proprio come lo pensavo è “Un giorno questo dolore ti sarà utile”».
Lei ama molto leggere. Quest’estate chi le ha fatto compagnia?
«Sono attratto soprattutto dagli autori moderni, sia americani che europei. Quest’estate sono tornato a leggere un narratore che amo molto: Anthony Trollope, lo scrittore inglese dell’età vittoriana. Mi sorprende sempre perché ogni suo romanzo è un capolavoro. Per la complessità della storia, per la profondità con cui descrive i personaggi. Per gli insegnamenti che il lettore trae dalle sue pagine».
Com’è Peter Cameron dietro la maschera di scrittore?
«Ho scelto di fare lo scrittore proprio per non parlare di me stesso. Per esprimermi attraverso il filtro della narrazione. Ma, in realtà, dietro lo scrittore c’è il Peter Cameron insegnante, lettore, la persona a cui piace stare da solo, che ama molto i cani. Che sta volentieri anche con gli amici e con le persone che ama».
I suoi libri, spesso, diventano film. Mai pensato di portarli lei sullo schermo?
«Ci ho pensato. Ma ho lasciato perdere, soprattutto guardando come lavorano i registi. A me piace controllare completamente il lavoro che faccio. Lo scrittore è il re indiscusso della pagina. Il cinema, invece, è un’attività corale. Chi dirige un film dipende molto dai collaboratori, dalle situaziuoni in cui si trova a girare. Se vuoi fare una scena in cui piove, e invece splende il sole, devi utilizzare la pioggia artificiale. Oppure aspettare. Ma la produzione te lo consentirà? E se voglio riempire una piazza con mille persone e non mi danno il permesso?».
Dell’Italia, cosa le piace?
«A volte penso che non sia facile essere italiano. Perché le persone sono molto socievoli. Molto più di me, che amo stare per conto mio. Forse, se vivessi qui, potrei cambiare. Sono venuto spesso in Italia. Ho visitato tanti posti e sempre mi ripeto: ci sarà pure una città brutta, con persone antipatiche. Non l’ho ancora trovata».
E cosa non le piace?
«Forse proprio questo: l’estrema disponibilità, socievolezza. Perché mi fa capire quanto poco lo sono io».
In rete se la cava bene, ha un sito sempre aggiornato. Dialoga con i lettori via web?
«Il sito lo curo io. Anche se ho iniziato a navigare su internet solo nella seconda parte della mia carriera. Certo che adesso, per i lettori, è più facile mettersi in contatto con gli scrittori. E per me è bello sapere che, da lontano, qualcuno segue il lavoro che faccio. Dialogando senza fretta, senza l’urgenza dell’incontro ravvicinato».
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