Caccia al cinghiale: ore 5.30, si spara
Sono le cinque e mezzo del mattino e il sole non è ancora sorto quando i guardiacaccia si incontrano in via Commerciale alta per dare inizio alla terza giornata della caccia al cinghiale. Secondo i piani di abbattimento in deroga, stabiliti dalla Provincia di Trieste, che prevede di eliminare 100 esemplari
IN MARCIA
Carabina in spalla, il maresciallo della polizia ambientale territoriale Maurizio Rozza tende l’orecchio verso gli alberi dove, nelle ombre, si nascondono i cinghiali. Il branco, uno dei tanti che ormai popolano la periferia triestina, si è stabilito nel canalone che dall’altipiano scende fin quasi a Roiano affiancando per un tratto le rotaie del tram di Opicina. «In una zona abitata come questa – dicono – non è possibile fare vere e proprie battute di caccia, l’unico modo per sorprendere gli animali è appostarsi lungo il loro percorso».
LA TECNICA
L’appostamento al cinghiale è un lavoro da fare in coppia, e i due guardiacaccia scendono il bordo ripido del canalone per appostarsi nei pressi del ruscello, a una cinquantina di metri l’uno dall’altro. Il terreno è scivoloso a causa delle recenti piogge, ma anche per i frequenti passaggi del branco: «Uno dei problemi creati dal cinghiale è che, percorrendo sempre gli stessi sentieri, – dice Rozza – rende il terreno franoso». Nei giorni precedenti sono stati abbattuti quattro esemplari, e il maresciallo teme che questa volta gli animali, guardinghi, non si faranno vedere tanto facilmente: «Spaventarli è proprio il nostro obiettivo – sottolineano – assolutamente non c’interessa sterminarli: se il branco non si presenta per noi è un successo, significa che siamo riusciti a farli sloggiare verso l’altipiano».
NEL MIRINO
Gli abbattimenti vengono effettuati in base alla struttura sociale del branco: quella dei cinghiali è infatti una società matriarcale, guidata da un capobranco femmina che guida il gruppo valutando i costi e i benefici di ogni territorio. «Si tratta di animali estremamente intelligenti - dice Rozza -: il nostro lavoro consiste nell’abbattere solamente alcuni membri marginali del branco, lasciando in pace femmine e cuccioli». In questo modo la matriarca comprende che la zona è pericolosa e porta il branco sull’altipiano, nel suo habitat naturale. Un dannoso incremento demografico. «I cinghiali si sono stabiliti nella zona periurbana perché hanno trovato un territorio ideale – racconta il maresciallo Rozza – qui c’è acqua, che sul Carso manca, e soprattutto c’è cibo in abbondanza». Il problema, ancora una volta, è chi nutre gli animali: «Arrecando loro un danno – dice – perché li attrae al di fuori del loro habitat naturale».
IL CIBO E TONI
La gente familiarizza con i cinghiali, creando paradossalmente una simbiosi dannosa ad entrambi: «L’altro giorno abbiamo abbattuto un grosso esemplare – ricorda Rozza – e una signora è uscita di casa dicendo “gavè copà Toni”. Ma “Toni” pesava circa 130 chili e trovarlo in mezzo alla strada è pericoloso».
I DANNI
Il risultato è che il tasso di riproduzione in provincia, a fronte del 130 per cento di norma, è del 240 per cento. «I danni che arrecano sono enormi – ripetono i due camminando nei boschi -, non solo all’agricoltura, ma anche al resto della fauna: i cinghiali sono onnivori e si nutrono anche di cuccioli di caprioli, la cui popolazione ha avuto un calo drastico a Trieste».
LA FUGA
Il sole ormai filtra tra i rami e l’appostamento dei guardiacaccia, tormentati da nugoli di zanzare, pare non dare risultati. D’un tratto un rumore dal fondo del canalone indica la presenza di alcuni animali: il maresciallo avanza tra i cespugli con circospezione, ma è troppo tardi. «C’erano due giovani maschi – dice Rozza – ma sono scappati attraverso la strada». Traversata via Commerciale e le rotaie del tram di Opicina, i due si sono persi nella boscaglia. «Il resto del branco non si è visto – considera Rozza – devono aver capito che qui non è un buon posto per loro».
LA CARCASSA
Il guardiacaccia si ricongiunge al collega e, visto che per oggi non si spara un colpo, si torna alle jeep. Prima di andare a fare colazione però, i due si fermano poco più su, lungo le rotaie, dove giace ancora il corpo di un grosso maschio abbattuto nei giorni scorsi: «”Toni”, per l’appunto, - spiegano –: è talmente grosso che non abbiamo potuto portarlo via, dovremo venire nei prossimi giorni e caricarlo con un paranco».
LA CARNE
Qualche centinaio di metri c’è un’altra carcassa di circa un quintale: «La carne degli animali non si può mangiare senza passare prima per un apposito centro di lavorazione carni – si rammarica il maresciallo – che purtroppo in provincia ancora non esiste: così dobbiamo eliminare i corpi in altro modo, ad esempio dandole in pasto ai grifoni (oppure portandoli all’inceneritore, ndr)». I guardiacaccia risalgono sui mezzi, diretti a Opicina per il caffè e la brioche delle sette del mattino.
GLI SPARI
Ma la giornata non è finita: sulla via del ritorno le due guardie decidono di tentare ancora un appostamento e riscendono del canalone. Poco più tardi, il silenzio del bosco viene interrotto dal tuono di tre spari: altrettanti ungulati stramazzano al suolo, fulminati dalle carabine. «Uccidiamo il cinghiale sempre con unico colpo alla testa – spiegano –, innanzitutto per evitare inutili sofferenze alla bestia ma anche perché un animale ferito può diventare molto pericoloso». Il cinghiale è dotato di estrema vitalità e, anche dopo essere stato ferito da un colpo al cuore, è in grado di percorrere ancora 150-200 metri di corsa.
IL PERICOLO
«Questo ci differenzia dai cacciatori», dice Rozza. E aggiunge: «Loro tendono a mirare al busto dell’animale, più facile da colpire: ma un cinghiale ferito a spasso in periferia è qualcosa che noi non possiamo permetterci. Per lo stesso motivo - sottolinea - spariamo solamente quando siamo certi di colpire, le carabine in dotazione sono molto potenti ed evitiamo nel modo più assoluto di creare proiettili vaganti». A riprova delle sue parole, anche in questo caso i colpi sono andati a segno: almeno per il momento, la caccia è finita.
LA NATURA
E dire che quel fucile con il mirino poteva essere sostituito da madre natura. La sovrappopolazione in zona urbana costringe l’uomo a sostituirsi all’unico predatore naturale del cinghiale, il lupo: «Non ci sono più lupi a Trieste dal XIX secolo e ora vivono solamente sul Carso sloveno ma – scherza il maresciallo – se ci fossero ancora il problema sarebbe risolto».
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