Burocrazia, costi record e vincoli delle Belle Arti: l’odissea dei locali storici

TRIESTE «Noi proprietari e gestori che ci sforziamo di mantenere in vita i nostri antichi locali triestini, a volte ci sentiamo come dei “panda”: una specie a rischio estinzione da proteggere, per non perdere il ricordo di Trieste grande “città-emporio ” fra 700 e ’800. Ma le istituzioni vogliono sostenere il nostro sforzo o solo rammaricarsi ogni volta che un locale storico - come dimostrato dalla vicenda Pirona - rischia di chiudere dopo una morte annunciata da tempo?». È il dubbio sollevato da Massimo Donda, presidente del “Gruppo operatori antiche botteghe” triestine. Dubbio che serpeggia fra molti operatori della stessa realtà, e le storie di alcuni di loro sembrano avvalorarlo.
Saragat, Pertini, Scalfaro, Cossiga, Napolitano e Giovanni Paolo II: cinque presidenti della Repubblica e un Papa sono stati fra gli avventori illustri del ristorante Suban, sotto la stessa conduzione familiare dal 1865: «Oggi io rappresento la quinta generazione - dice Federica Suban - e lo stesso vale per molti nostri clienti che, portati qui per il battesimo e la Comunione, tornano per il loro matrimonio e le nozze d’argento, rinnovando una tradizione da padre, in figlio a nipote che dimostra che siamo parte della loro storia. Perciò, anche per non deluderli, andiamo avanti: nonostante le dimensioni di Suban. Oltre un secolo fa, infatti, la gente andava al ristorante solo di sabato e domenica: e poiché in due giorni si giocava tutto l’incasso, i locali dovevano accogliere molte persone. Ma oggi i mille mq di ristorante e giardino, sono una batosta, non solo per i consumi e i costi di manutenzione, ma soprattutto l’Imu e la tassa sui rifiuti: ben 30 mila euro all’anno a fronte di appena 60 coperti al giorno perché, tranne il week end, lavoriamo solo la sera. E questo crea un’assurda disparità con locali, per esempio, di 100 mq, che producono gli stessi rifiuti con 30 coperti a pranzo e 30 a cena, ma pagano un decimo di Tari».
Un’altra vittima di vincoli burocratici e oneri che non tengono conto della “storicità” di botteghe sopravvissute nel mercato globale, è il supermercato Bosco, dal 1880 all’angolo fra via Mazzini e piazza Goldoni: «Ho investito una grossa cifra per ripristinare l’insegna storica in rame: ma non può essere esposta per una postilla dell’attuale Regolamento comunale che vieta di coprire, anche se di poco, il bugnato del palazzo. Risultato: l’attuale scritta su plastica rossa, solo perché più piccola, è “in regola”; mentre quella approvata dalle Belle Arti, fedele alle fotografie del 1910 in cui già ricopriva il bugnato, sta in uno scantinato», spiega Fabio Bosco, desolato anche perché l’insegna fa parte del “Museo” in allestimento nelle 4 vetrine per spiegare il funzionamento dell’antica bottega: «Nella prima vetrina saranno esposti utensili e foto dal 1880 al 1930 come bilance, cassetti per la pasta e “sessole” per raccogliere i prodotti sfusi; nella seconda, gli oggetti della prima trasformazione del vecchio negozio fra il 1930 e il 1961; nella terza, dal 1961 ad oggi, quelli di “Bosco” divenuto il primo supermercato della città” con registratore di cassa e prodotti come il Punt & Mes allineati su scaffalature quasi “minimaliste”; nell’ultima, fotografie e documenti testimoni della Trieste commerciale. Perché questa iniziativa? Per non cancellare ogni traccia di questa nostra storia».
«Ma la difesa del passato commerciale di Trieste non può pesare solo su chi gestisce le antiche botteghe», osserva Milena La Porta, 30 anni, figlia di Gaetano La Porta, il pasticcere della Bomboniera che ha rilevato il locale 18 anni fa. «Ultimamente l’AsuiTs ha dichiarato che i nostri armadi del 1836 non sono più in regola: ma per il restauro di mobili simili, incassati nei muri, non esistono contributi. E questi oneri pesano su un lavoro già snervante che mio padre, a 60 anni, continua a fare solo perché non trova un sostituto. Questa, infatti, è l’unica pasticceria che ha ancora il forno a legna, dove si preparano le ricette originali austriache e ungheresi lavorando tutto a mano, dalla pasta sfoglia alla panna montata, in quantità giornaliere: tant’è che alla sera le vetrine sono vuote. È un lavoro, dunque, faticoso, svolto anche di notte e nei festivi, che non produce capitale e profitto, ma solo sostentamento: come è tipico delle attività artigianali in cui il titolare è colui che produce, non uno che delega. Anche se oggi gli artigiani sono stati inseriti nella “categoria-calderone” degli imprenditori e costretti a rispettare le stesse regole».
Solo per una fortunata congiunzione astrale, dunque, un locale storico come il Caffè San Marco, quando è morto il precedente gestore, anziché fare la stessa fine, è “letterariamente” rinato. Tra i concorrenti in gara 5 anni fa per la nuova gestione c’era, infatti, Alexandros Delithanassis, un editore greco con una libreria proprio di fronte al San Marco, che ha avuto di farlo rinascere con un’anima ancora più antica: quella del caffè letterario. «In realtà io ho solo rispolverato l’anima cosmopolita e culturale di questo luogo. A differenza dei locali per la mescita del vino riservati agli uomini - tipo bar, vinerie, osterie - il San Marco nasce nel 1914 proprio come “caffè” nel senso di “luogo di accoglienza”, di dibattito ed espressione degli intellettuali e della nuova borghesia, aperto anche alle donne. Questo è il “caffè” storicamente importato da Costantinopoli - e di lì a Venezia e nell’Europa di metà ‘800 - che rivive nel San Marco di oggi: grazie, però, alla nostra continua produzione di eventi letterari e gastronomici. Dalla “sacher torte” più grande del mondo alla pubblicazione di libri anche di autori non solo italiani come Varoufakis e Tsakalotos); al via vai di giornalisti che rilanciano oltre Trieste le nostre iniziative frutto di tradizione e innovazione, idee e pasticcini “doc”. Ma io, come il pianista sull’oceano, lavoro senza scendere mai a terra, senza tregua: perché se la vitalità cosmopolita e culturale di questo caffè si affievolisce, chissà se si rianima più».
Ciò che sembra accomunare, dunque, queste storie - emblematiche anche di molte altre vicende simili - è la precarietà: imposta soprattutto da oneri e vincoli burocratici pensati per gli esercizi commerciali di oggi, ma inapplicabili tout court ai locali storici e al passato prezioso che riescono ad evocare. Perciò, l’ultima storia è dedicata al calzaturificio Donda classe 1887: non solo perché uno dei 3 più antichi d’Italia con annesso Museo dotato di un centinaio di calzature (su 3 mila in attesa di collocazione), di macchinari, pellami d’epoca e 4 mila foto di vetrine, personale al lavoro e pubblicità sui quotidiani; ma anche perchè il suo attuale proprietario, Massimo Donda è il promotore del “Gruppo operatori Antiche Botteghe”.
«Queste aziende a “km zero” - perché hanno proprietari, clienti e dipendenti triestini da generazioni, pagano le tasse e reinvestono qui i capitali da un secolo - sono così poche che qualunque agevolazione a loro favore costerebbe un’inezia rispetto al ritorno d’immagine ai fini turistici. Come? Creando un percorso storico (ogni azienda è già certificata da un’insegna della Regione), che caratterizzi Trieste come “città emporiale dal ‘700 che conserva ancora, oltre ai suoi palazzi, le sue botteghe storiche. Che cosa manca perché questo progetto decolli? Solo un po’ più di interesse e di volontà da parte delle istituzioni». —
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