Budapest e Trieste, un legame che non va spezzato
L’appuntamento con Zwack è un’opportunità eccezionale, e come gli eventi rari arriva di sorpresa, combinato solo poche ore prima con l’intermediazione del figlio, Sandor, nato in Italia, vicepresidente alla Camera di commercio italo-ungherese, numero due del vertice dell’ente, il triestino Alessandro Stricca. Fabbrica e museo sono in un quartiere a poca distanza dal Danubio, quel cordone ombelicale che ancora tiene unito idealmente il vecchio impero Austro-ungarico, Budapest Vienna e giù sino ai Balcani, ma c’è anche un cordone ideale che non smette di unire tradizioni, pensiero ma soprattutto relazioni tra la stessa Trieste, lo storico porto dell’Impero e Budapest.
Un filo che si intravede girando tra le vie del centro. Ad ogni passo, portone dopo portone, casa dopo casa, grazie all’aria familiare delle geometrie urbanistiche asburgiche, il pensiero ritorna di continuo nella città giuliana. «Quando sono arrivato non sapevo nemmeno una parola di italiano, non avevo un soldo in tasca. Solo un contatto in città con un banchiere, amico di famiglia: il barone George Ullmann. L’ho chiamato, mi ha dato il benvenuto e poi mi ha chiesto se per caso avevo con me uno smoking. La sera ci sarebbe stato un grande ballo in onore dell’ammiraglio inglese. Ho detto che avevo solo i vestiti che indossavo. Ci ha pensato lui.
E così ho trascorso il mio primo giorno di vita libero, a Trieste, andando la sera a un ballo, non mi ricordo dove. Era bellissimo». I ricordi scorrono veloci, Zwack li ripercorre ricercando le immagini con lo sguardo in lontananza e con un sorriso velato. Il periodo della «dolce vita» ma senza soldi a Roma assieme all’amico Bela Dreher (quello della famiglia che con Anton ha legato il suo nome alla birra, continua il filo che riporta a Trieste), «mangiavamo zucchero con il limone rubato nei bar e stavamo distesi a letto nella pensione Svizzera in via Gregoriana per non perdere energie» racconta. Poi il padre che scappa dall’Ungheria nascondendosi in un camion russo con in tasca la ricetta segreta dell’amaro Unicum «In Ungheria avevamo lasciato quella falsa a uno zio. Hanno continuato a produrlo falso fino all’87». Ride Zwack e intanto la storia si arricchisce di particolari, intrecci e diventa fantastica.
Il viaggio di Peter continua a Genova, c’è l’incontro con il padre: «Siamo partiti alla volta degli Stati Uniti, eravamo a bordo del Vulcania, il comandante era un triestino. Non me lo ricordo bene il nome, forse era Gladulich». Da lì ricominciano le fortune degli Zwack che diventano cittadini americani. Arriva il primo matrimonio di Peter, la conoscenza con le famiglie dell’establishment americano («giocavo a tennis con Bobby Kennedy»), fino alla «causa storica» contro il governo Ungherese per riprendersi l’azienda, intentata da New York. «L’abbiamo vinta – racconta Zwack – e un sacco di gente ha seguito le nostre orme».
La vita riserva sorprese, Zwack torna in Italia, si sposa per la seconda volta, tocca a una ragazza inglese: a Firenze nascono Sandor e Isabella «loro sono italiani». I tempi sono maturi per il rientro in Ungheria, c’è un invito per il proprietario della Unicum: «avevano bisogno di noi per le riforme». Il rientro nell’87, il primo a rientrare dopo la fuga nell’Ungheria ancora comunista: il muro di berlino non era ancora caduto. Zwack stavolta gioca a tennis con i membri di governo comunisti: «Non sapevano, come Gorbaciov, che le cose sarebbero cambiate completamente».
Per Zwack è un rientro trionfale, diventa primo ambasciatore della Repubblica Ungherese a Washington, rientra dopo 2 anni a Budapest e rileva la sua industria ricomprandola: «1400 operai, 12 fabbriche sparse per l’Ungheria. Ora sono solo 300 gli operai e tre fabbriche con una bellissima distilleria di Palinka a sud di Budapest». Una forza in Ungheria visto che la Unicum è la numero 1 del mercato (occupa una porzione del 40%) con la vendita di oltre 3 milioni di litri di amaro, pari a 5 milioni di bottiglie. Zwack diventa senatore per 6 anni, «l’unico indipendente» precisa con orgoglio, poi per 2 anni passa al partito liberale. Il filo con Trieste rischia di spezzarsi, non si trova più il capo. La porta dello studio di Zwack si apre improvvisamente, entra una segretaria con due caffè, il viso dell’industriale si illumina, lancia uno sguardo di sfida: «Gradisce un caffè? Prego è Illy, credo lo conosca. Io e tutti qui in fabbrica non beviamo altro».
Ride di gusto Zwack e torna a parlare di Trieste: «Quanto mi piace la vostra città, ci sono stato almeno sei volte, quelle vie, il mare, la piazza Unità e i caffè. Mi sono trovato benissimo al Caffè degli Specchi dove ho incontrato gli amici: de Banfield, Stock, Giorgio Pressburger. Ma non ho mai conosciuto gli Illy, è una famiglia che mi ha sempre affascinato, sono ungheresi come noi e sono ambasciatori d’Italia con il loro nome, me ne accorgo ogni volta che vado a New York quando vedo quel marchio. Ho letto anche molto sul governatore del Friuli Venezia Giulia, Riccardo, sulla storia di Ernesto Illy. Non sapevo che la signora Anna Illy fosse console onorario ungherese. Vorrei tanto conoscere questa famiglia». L’ora è letteralmente volata, il boss della Unicum si congeda con una battuta: «Devo sbrigare un sacco di lavoro, domani prendo l’aereo con mio figlio e vado in Italia: sa c’è la partita Fiorentina-Inter, sono tifoso viola accanito, abbiamo comprato un abbonamento da Della Valle. Da voi c’è la Triestina che va forte... Stiamo perfezionando il gemellaggio con Firenze, peccato che non l’abbiamo pensato con Trieste... ma non si sa mai».
I passi si allontanano veloci dalla fabbrica e nel taxi che sfreccia veloce lungo le rive del Danubio, diretto in centro, cerco di riprendere il capo del filo del legame con Trieste, ma ci sono le case, le vie, le prospettive di questa città, Budapest, che aiutanto l’immaginazione e che mantengono l’atmosfera familiare. Sembra di essere in mezzo a un’operetta. Riemergono le parole di Claudio Magris (scritte in «Danubio»): «La più bella città del Danubio, una sapiente messinscena come Vienna, ma con una robusta sostanza e una vitalità sconosciute alla rivale austriaca. Budapest dà la sensazione fisica della capitale con una signorilità e un’imponenza da città protagonista della storia.....».
Il taxi percorre d’un fiato il ponte di ferro Szabadsag lasciandosi alle spalle il Gellert hotel con le sue storiche terme, percorre la Vamhaz Korut passando davanti al mercato coperto di Budapest che lascia sempre a bocca aperta con i suoi variopinti negozi interni che rimanda solo lontanamente a quello che c’è a Trieste, e arriva finalmente in Brody Sandor davanti all’Istituto italiano di cultura. È il più grande d’Europa, dal 1865 al 1902 ha ospitato la sede del parlamento ungherese e proprio per questo lo hanno scelto per ospitare le manifestazioni culturali della Rivoluzione di Budapest e nei giorni scorsi c’è stata la conferenza stampa di presentazione delle iniziative. Ogni anno la sede d’Italia a Budapest ospita almeno 200 manifestazioni, il salone centrale è uno dei più grandi e belli dell’Ungheria e anche la Philips lo usa per le registrazioni vista la splendida acustica.
Appena varcata la porta ed ecco che riemerge il filo che mantiene legate Trieste a Budapest: «Buongiorno, viene da Trieste? – chiede in perfetto italiano il portiere con aria gentile e una voce che sembra appena uscita da un corso di dizione – quanto siamo legati alla città. Il precedente direttore è stato per quattro anni Giorgio Pressburger». È appena terminata la presentazione del premio internazionale di poesia Salvatore Quasimodo, dalla sala esce il direttore dell’istituto Arnaldo Dante Marianacci che è anche consigliere per gli affari culturali dell’ambasciata italiana. «Trieste, la patria d’adozione di Giorgio Pressburger – ricorda Marianacci – lui è nato a Budapest e a 18 anni è arrivato in Italia. Ma i veri legami con Trieste sono storici, antichissimi. Ne abbiamo parlato lo scorso giugno in occasione del Bloom’s day dedicato a James Joyce e all’istituto dopo la cerimonia inaugurale c’è stato un convegno dedicato allo scrittore e nell’occasione una sezione è stata dedicata a Joyce e Trieste. Un legame doppio anche con l’Ungheria visto che Joyce aveva scelto come protagonista del suo romanzo, Ulisse, mister Bloom che in ungherese si traduce Virag (fiore). Pensiamo infatti che in realtà fosse un personaggio tratto dalla cultura ungherese. Abbiamo anche scoperto che nel vocabolario di Joyce ci sono almeno un’ottantina di parole ungheresi. Joyce era amico di ungheresi che vivevano a Trieste dove avevano fondato anche un club, gli Amici di Szombathely...».
Marianacci parla seduto nel divano del suo studio, sulla parete ci sono numerosi quadri e uno spicca subito tra gli altri, firmato da Dyalma Stultus, un olio su tela di Crocicchio Corbia a San Daniele del Carso. Non si interrompe nemmeno tra queste mura il filo invisibile che lega Trieste a Budapest, un legame profondo di storie e scambi. Qualche anno fa Trieste è venuta qui a incontrare gli moperatori del Porto e a presentare la candidatura per l’Expo 2008 chiedendo un sostegno e il voto ungherese, i convegni Trieste-Budapest sono continui, restano negli annali quelli dell’Istituto centro europeo di Budapest dedicato alla psicanalisi con il direttore del Revoltella. «Un museo bellissimo che tra l’altro ha una collezione donata da un budapestino» ricorda Marianacci parlando della sua esperienza come direttore a Budapest e del suo incontro con l’Ungheria. «Siamo in un momento epocale per gli ungheresi, dopo l’89 hanno iniziato a muoversi molto, vanno tanto in Italia, quasi tutti a Venezia. Ma la prima tappa, obbligata, è Trieste. La visitano tutta, vanno a Miramare dove restano incantati. Perché è una città molto simile al loro sentire, cosmopolita che ha ospitato e dato la casa a tanti ungheresi».
È ora di pranzo, Marianacci prenota un tavolo al ristorante all’angolo della Brody Sandor, è il ristorante Muzeum, uno fra i più famosi di Budapest, probabilmente il più raffinato per gustare la cucina ungherese e mentre si percorre il breve tratto di strada a piedi racconta del suo ultimo romanzo prolungando il filo che porta a Trieste «Si intitola i fiori del tibisco – spiega – è un insetto, rappresenta l’effimero della vita perchè vive poche ore. Pensi che in questo romanzo, ambientato a Gradisca d’Isonzo dove ho fatto il militare, c’è anche Trieste e il museo Revoltella. Quando avevo la divisa venivo a Trieste ogni sera, era magica. Lo presento il 7 ottobre al Caffè San Marco».
La porta del ristorante Muzeum si apre, i camerieri ci fanno accomodare al tavolo, l’atmosfera è raffinata, l’arredamento ricorda lontanamente un caffè e l’aria è sempre familiare, riporta a Trieste anche per i gusti e i piatti riportati sul menù. Ad attendere ci sono il numero due dell’ambasciata italiana, Giuseppe Pastorelli, accanto a lui un ospite. Stanno parlando dei preparativi per le manifestazioni in ricordo della rivoluzione degli anni ’50, ma ad un tratto l’ospite sente che c’è un cronista del Piccolo di Trieste, smette di parlare e si presenta: «Sono Lajos Pinter, console generale onorario di Ungheria a Verona, lì ho fondato il pronto soccorso dove ero primario. Ho un balzo al cuore quando sento parlare di Trieste. Ricordo ancora quando fuggimmo dall’Ungheria, ci accolse l’Italia. Ci vennero a prendere con dei pullman Fiat nuovi di zecca, uno era colmo di ricambi per il lungo viaggio. Accanto a me c’era Giorgio Pressburger. Io andai a Chioggia e Verona, lui si stabilì a Trieste. Siamo rimasti sempre amici...».
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