Bryant, indagine sullo schianto fatale: l’elicottero in volo malgrado la nebbia
NEW YORK. Guardando la gente che va in pellegrinaggio allo Staples Center di Los Angeles, lasciando un fiore, una scritta, una preghiera dedicata a Kobe Bryant, mi torna in mente la processione che avevo visto costruire il memoriale di Cupertino, quando i seguaci del culto laico di Steve Jobs erano andati a omaggiarlo dopo la sua morte. Perché ci sono lutti che vanno oltre l’identità della persona scomparsa e, per qualche ragione, toccano l’immaginario collettivo: «Kobe – ha commentato commosso il tifoso angeleno John Epiceno – era il nostro re. Un uomo con i suoi difetti, come tutti, che però stava dalla nostra parte».
Sulle cause dell’incidente che ha fatto precipitare l’elicottero dell’ex campione dei Lakers, uccidendo lui, la figlia 13enne Gianna e altre 7 persone, stanno indagando gli agenti del National Transportation Safety Board e dell’Fbi. La pista più probabile è quella del cattivo tempo, la nebbia che avvolgeva le colline di Calabasas su cui si è schiantato il Sikorsky S-76, così folta da aver spinto la polizia locale a lasciare a terra tutti i suoi apparecchi. Il pilota dell’elicottero ha ricevuto dalla torre di controllo dell’aeroporto di Burbank un’autorizzazione speciale per decollare nonostante le condizioni meteo, chiamata «Special Visual Flight Rules».
Kobe andava ad allenare una partita di Gianna, nella sua Mamba Sports Academy, che rappresentava un importante pezzo della sua nuova vita. Non solo perché ci giocava la figlia, ma soprattutto perché incarnava il suo progetto di aprire la strada del basket a decine di bambini. L’altro pezzo, oltre alla famiglia, era diventato «raccontare storie».
Come aveva fatto con la poesia sul suo ritiro dallo sport, «Dear Basketball», diventata un cortometraggio da premio Oscar, e come intendeva fare scrivendo e girando altri racconti per ispirare i bambini. Perciò tre presidenti, Trump, Obama e Clinton, lo hanno onorato con i loro ricordi, e forse per la prima volta Donald e Barack si sono trovati d’accordo su un fatto, e cioè che la vita di Kobe era appena cominciata, e il secondo atto sarebbe stato uno spettacolo come il primo.
Tantissimi i messaggi dal mondo dello sport, come quello di Shaq O’Neal, il gigante con cui aveva vinto e litigato, in un costante rapporto di amore e rivalità: «Non ci sono parole per esprimere il dolore che sto patendo per questa tragedia di aver perso mia nipote Gigi e mio fratello. Ti amo e ci mancherai. Adesso sto male». O Michael Jordan, l’idolo dell’infanzia che voleva battere: «Era come un fratello minore per me. Era un fiero competitore, uno dei più grandi di sempre e una forza creativa».
Invece LeBron James, che ha preso il suo posto per far rinascere i Lakers, e lo ha appena superato al terzo posto nella graduatoria dei marcatori di tutti i tempi dell’Nba, ha lasciato parlare le lacrime, tornando a Los Angeles dalla partita giocata a Philadelphia: «Certe cose non hanno senso. L’universo va così, ma tu non riesci proprio a dargli un senso». Il sindaco di Los Angeles Garcetti ha fatto colorare il municipio come la maglia dei Lakers, e l’arcivescovo Gomez ha detto che prega per la sua anima.
Kobe era cattolico praticante e aveva fatto ricorso alla fede nei momenti personali più difficili, quando nel 2003 era stato accusato di stupro e quando nel 2011 aveva divorziato dalla moglie Vanessa. La prima vicenda si era chiusa senza condanna, con le sue scuse pubbliche; il matrimonio era stato ricostruito. Le debolezze dell’uomo, come dice il tifoso Epiceno, che però lo hanno reso più vicino agli uomini.
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