Bossi: «Il porto di Trieste leva basilare per creare prodotto e valore aggiunto»

«Le realtà scientifiche della città sono eccellenti, ma faticano sempre a far valere la portata delle proprie innovazioni»

MILANO Uno scenario in cui si naviga a vista, con diverse incognite sulla ripresa. È la fotografia dell’attuale situazione economica scattata dal triestino Giovanni Bossi, già amministratore delegato di Banca Ifis e ora imprenditore con Cherry, società che si occupa di algoritmi e intelligenza artificiale nel mondo del credito, e azionista di maggioranza di Cherry 106, attiva nella gestione e nel recupero del credito.

Partiamo dallo scenario macro. Nei prossimi mesi cosa possiamo attendersi?

Credo che navigheremo a vista in mari tempestosi. Molto dipende da tre condizioni: se la ripresa dei contagi sarà contenuta; se le misure di sostegno ai redditi e gli impegni di spesa previsti dai decreti propagheranno i loro effetti sull’economia reale; se proseguirà la politica monetaria accomodante, che dopo aver stabilizzato i mercati, continuerà a garantire il normale funzionamento del sistema del credito. In caso di tre risposte positive, il settore industriale potrà sperare di riprendersi in questa ultima parte dell’anno dopo la marcata caduta avvenuta nel primo semestre. Più di tutto continuano a preoccupare soprattutto i consumi delle famiglie e il mercato del lavoro.

Due fenomeni legati all’andamento delle imprese. Qual è il loro stato di salute nel Triveneto?

Questa è un’area che si è presentata alla pandemia colpita dalla chiusura delle due principali banche del territorio, Popolare Vicenza e Veneto Banca. Molte delle aziende che si erano affidate a queste realtà sono ancora in situazioni di disequilibrio finanziario, altre sono fallite e le famiglie hanno visto sparire i propri risparmi. Nel Triveneto si assiste a una polarizzazione: da una parte aziende eccellenti, distretti riconosciuti a livello mondiale con forti flussi di esportazioni, e aziende quotate ammirate dall’intero mercato finanziario; dall’altra modelli di business storici in forte crisi, passaggi generazionali falliti, incapacità di innovare.

Tutto sommato questa fotografia non è troppo distante dal footprint industriale del Paese...

E nemmeno dal contesto triestino, con il territorio che da una parte assiste a una ripresa delle attività economiche intorno al porto e grazie al dinamismo delle startup e dall’altro deve fare i conti con una congiuntura negativa. È così. La città oggi non può pensare di poggiare le proprie prospettive di sviluppo solo su un’industria di tipo tradizionale, posto che la crisi ne sta mettendo in discussione la sopravvivenza. Oggi la nostra città deve saper valorizzare al meglio i propri talenti senza voli pindarici ma con concretezza e senso della realtà. E mi pare che il porto rappresenti una leva fondamentale per creare prodotto – soprattutto se venisse attuato completamente il regime di porto franco –, valore aggiunto e profitto. Vedo anche nuovi movimenti intorno a questo asset, una nuova consapevolezza del valore di ciò che già c’è sul quale potrebbe essere possibile investire ancora. E certo, l’innovazione, la ricerca scientifica, elementi essenziali per Trieste da decenni, che fanno sempre fatica a scaricare a terra la portata delle loro innovazioni. Nessuna impresa pesante, quindi, ma leggerezza e capacità di immaginare un futuro nuovo senza avere paura delle crisi, ma anche evitando di far finta che non ci sia e correndo a chiedere soldi pubblici a rubinetto aperto.

Come nasce la sua scelta di puntare da imprenditore sul business npl? Come va la nuova avventura?

Le aziende Cherry, create in poco più di un anno, stanno crescendo bene e Insieme abbiamo elaborato nuove strategie e modelli di creazione di valore innovativi, con la capacità e possibilità di affrontare le sfide senza legami di alcun tipo con un passato che non può essere una buona guida per le sfide del domani. Stiamo attualmente valutando una dozzina di possibili deal per l’acquisto dei portafogli. —

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