Boris Pahor: «Il vescovo ha agito come un giudice frettoloso»
«Doveva avvicinarlo come un padre che si accosta con severità ma anche con amore al proprio figlio che ha sbagliato, si è posto invece nel ruolo del giudice che condanna forse anche prima di aver acclarato completamente la situazione e spaventando fortemente l’accusato sulle conseguenze del suo gesto». Boris Pahor, scrittore di prestigio internazionale oltre che la figura culturalmente più eminente oggi della comunità slovena in Italia, non ha dubbi nel considerare errato l’atteggiamento tenuto dal vescovo Giampaolo Crepaldi nei confronti del parroco di Santa Croce, don Maks Suard sia nei giorni immediatamente precedenti che in quelli immediatamente seguenti il suo suicidio per impiccagione.
Don Suard si è tolto la vita dopo che sono emerse le attenzioni sessuali che riservò nel 1997 a una ragazzina di 13 anni. «Già nella prima nota emessa dalla Curia - sottolinea Pahor - don Suard è stato trattato come un pederasta, ma già qui c’è un errore di fondo. La pederastìa è una questione tra maschi, una perversione cha ha per vittime fanciulli e che solitamente il pederasta reìtera. Qui c’è stata un’attrazione sessuale anche se senza alcun dubbio la ragazza non aveva l’età».
Tutto il comportamento del vescovo non convince lo scrittore. «Capisco che una ragazza che ha subito un tale trauma, possa parlare appena a distanza di 17 anni perché anche tanti prigionieri dei campi di concentramento hanno avuto la forza di raccontare soltanto trent’anni dopo - spiega Pahor - ma bisognava comunque considerare che si tratta di un fatto per nulla recente, farsi spiegare con calma la situazione. Non capisco poi perché andare a Santa Croce a ritirare la lettera di dimissioni anziché farsela portare in Curia. Don Suard doveva certamente essere accolto in altro modo - continua lo scrittore sloveno - non era un delinquente che se ne fregava di quello che aveva fatto, tant’è che era tormentato dal rimorso, probabilmente avrebbe voluto lui stesso confessare molto prima, ma non ne ha avuto il coraggio. Certamente il vescovo non l’ha trattato come un padre pur in presenza di una mancanza grave del figlio, bensì come un giudice severo e la condanna inappellabile è emersa anche nel primo comunicato emesso dopo la morte in quelle circostanze così tragiche».
Considerazioni non molto distanti da quelle di Boris Pahor, le fa anche Peter Mocnik, segretario provinciale dell’Unione slovena, ma oltre che cattolico praticante, come lui stesso ricorda, anche per 12 anni componente del Consiglio pastorale diocesano. «Va chiarito - premette comunque - che la ricerca della verità in tutte le sue sfaccettature deve essere il primo e irrinunciabile obiettivo da raggiungere se del caso anche con l’intervento di un organo superiore alla Curia. Detto del merito però - aggiunge Mocnik - c’è metodo e metodo. Come insegna Papa Francesco, la giustizia deve essere coniugata alla misericordia e in questo caso forse di misericordia ce n’è stata poca se ad esempio come pare la Curia non ha nemmeno informato la famiglia che ha saputo dalla tv».
«Comprensibile» di conseguenza sia per Pahor che per Mocnik il comportamento dei fedeli di Santa Croce usciti dalla chiesa all’arrivo del vescovo. «Forse incontrare con delicatezza i paesani per spiegare la situazione anziché presentarsi all’improvviso in chiesa per celebrare la messa, sarebbe stato da parte del vescovo più opportuno», conclude Mocnik.
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