Bono: un patto per il rilancio industriale

La nostra regione ha sofferto la peggiore crisi dal dopoguerra: occorre individuare le basi per uno sviluppo duraturo

di GIUSEPPE BONO*

Non è semplice fare una panoramica della situazione economica attuale. Sicuramente un'analisi dello stato di salute dell'economia regionale non può prescindere da un minimo approfondimento sulla situazione globale. Allo stesso modo sarebbe riduttivo fare un'analisi meramente economica, non tenendo conto i mille volti della crisi che stiamo attraversando: sociale, culturale, valoriale. Se guardiamo all'industria, l'ultima indagine congiunturale regionale ci restituisce dei fotogrammi debolmente positivi: pare che nel 2014 il settore produttivo si sia leggermente ripreso rispetto all'anno precedente.

La ripresa quindi c'è, il problema è che si tratta di una ripresa lenta e incerta, ancora molto vulnerabile. Lo spettro di possibili ricadute ci impone di essere cauti, anche perché l'economia del Friuli Venezia Giulia rimane distante anni luce dai valori di produttività e benessere che registrava prima della crisi. Ad oggi, nel 2015, non ci sono novità significative. Purtroppo la nostra regione e tutto il sistema Italia risentono di una congiuntura negativa che non sembra potersi risolvere a breve, e che in ogni caso non ci restituirà il panorama socio-economico che conoscevamo. Questi anni hanno profondamente modificato il tessuto produttivo, ridisegnato la mappa dei bisogni e dei consumi, portato a galla problemi nuovi e con essi nuove sfide. Va da sè che tali sfide non potranno essere affrontate con gli stessi strumenti che abbiamo utilizzato finora.

Se la portata di un problema all'interno di un sistema sano è tutto sommato relativamente trascurabile, altrettanto non si può dire delle problematiche che si manifestano in contesti di profonda crisi, dove la perdita di un mattone può minare la stabilità dell'intera struttura. Anche se oggi i riflettori sono puntati sulla crisi economica, non possiamo ignorare che nella penombra si celano i limiti e le falle profonde di un sistema culturale complesso, all'interno del quale le sorti dell'economia, profondamente intrecciate a quelle della società e dell'ambiente, non si risollevano certo per decreto.

A livello globale l'anno passato non ha risparmiato nessuno, ad eccezione degli Stati Uniti, che proseguono con livelli di crescita significativi e possono pertanto ritenere in parte superata la lunga fase di crisi economica. L'economia mondiale presenta ad ogni modo un quadro estremamente variegato. I Paesi avanzati registrano segnali di rallentamento e per i prossimi mesi le aspettative sono di una sostanziale prosecuzione delle attuali tendenze: si punta sui benefici derivanti dalla caduta del prezzo del greggio e sugli effetti positivi del cambio, nella speranza che questo possa alleggerire la risalita.

A livello nazionale l'economia italiana si è mantenuta debole per tutto il 2014, con un Pil in flessione. A dicembre i dati congiunturali ci hanno reso segnali contrastanti: nel manifatturiero e soprattutto nel commercio al dettaglio si registra un miglioramento del clima di fiducia, a differenza di quanto accade nel settore delle costruzioni e dei servizi. Questi elementi inducono a ritenere che il consuntivo del 2014 sarà caratterizzato da una sostanziale stabilità del Pil. Si tratta di una previsione parzialmente positiva, che poggia su quattro elementi: la svalutazione del cambio dell'euro che darà slancio alle esportazioni italiane extra-Ue, il prezzo molto basso del petrolio, il recupero del commercio internazionale, il miglioramento del credito per imprese e famiglie in seguito alle misure espansive della Bce. Una previsione che tuttavia deve misurarsi con le oggettive difficoltà in cui versa la nostra economia. L'incertezza sui tempi e sulla velocità di uscita dalla crisi, le condizioni stringenti di accesso al credito, l'ampia capacità produttiva inutilizzata e la bassa redditività, oltre al permanere delle note difficoltà per chi vuole fare impresa e alla corruzione dilagante, hanno determinato l'ulteriore rinvio dei piani di investimento.

Altro dato sintomatico della crisi economica e del disagio sociale che ne deriva è quello della disoccupazione. In autunno il tasso di disoccupazione ha superato il picco del 13%, senza contare l'utilizzo massiccio della Cig. Nello scenario del Centro Studi Confindustria si prevede che questo valore inizierà a scendere lentamente dalla seconda metà del 2015. Nel frattempo però 8,6 milioni di persone non hanno lavoro, e il 43,3% dei giovani tra i 15 ed i 24 anni alla ricerca di un impiego di fatto non ha speranza di trovarlo. Parallelamente il reddito pro capite per abitante è arretrato ai livelli del 1997, comportando la rinuncia a sei settimane di consumi all'anno.

Sono dati importanti: impossibile non cogliervi la portata del cambiamento a cui stiamo assistendo. La speranza è che il miglioramento delle condizioni del credito e lo scenario economico più favorevole rilancino il processo di accumulazione. Insieme alla graduale ripresa del Pil, con l'anno in corso la domanda di lavoro dovrebbe rafforzarsi, e la speranza è che tale recupero si consolidi nel 2016, con il contestuale miglioramento delle vendite delle imprese industriali, spinte da una domanda estera in espansione.

Al di là delle previsioni, è evidente però che l'Italia, e il Friuli Venezia Giulia non fa eccezione, sta attraversando la crisi economica più intensa dalla fine della seconda guerra mondiale, una crisi certo acuita dal difficile contesto internazionale, ma che affonda le proprie radici nel passato, precisamente nella seconda metà degli anni '90. Nel corso degli ultimi 30 anni in Italia abbiamo assistito ad una sistematica distribuzione della ricchezza accumulata nei primi decenni di storia repubblicana, un processo purtroppo non compensato dalla creazione di nuova ricchezza.

In altre parole stiamo perseverando in una politica di distribuzione di riserve, nonostante i bilanci in perdita e il crescente indebitamento. Ma come per le imprese, anche per un Paese valgono le buone norme di amministrazione: per distribuire dividendi è necessario avere prospettive durature di crescita degli utili e garantire un indebitamento sostenibile, pena il depauperamento del valore dell'impresa fino al venir meno delle condizioni per la sua sopravvivenza.

Riteniamo quindi fondamentale, per poter mantenere i livelli di benessere faticosamente raggiunti, ma anche per poter continuare ad essere una delle principali economie industrializzate, avviare un percorso che crei nuovamente le condizioni per uno sviluppo duraturo e per la creazione di valore.

La ricchezza prodotta consentirà poi l'avvio di politiche fiscali per una redistribuzione sostenibile, nel rispetto dei vincoli di bilancio che qualsiasi Paese serio osserva. É evidente, infatti, che un aumento del Pil libera risorse da destinare prioritariamente alla riduzione del debito pubblico, e solo successivamente alla riduzione degli oneri fiscali. Il settore industriale è attore primario in questo processo: nonostante le innegabili difficoltà, il comparto industriale italiano rimane fonte principale di innovazione e competitività, con un ruolo decisivo nella bilancia commerciale.

Urge perciò cominciare a ragionare seriamente e collettivamente su una nuova politica industriale, che coinvolga tutti gli attori del nostro sistema e che ponga le basi per uno sviluppo sostenibile dell'economia italiana. Il percorso di recupero di competitività deve essere sostenuto da appropriate politiche pubbliche che non incidano solo sul lato dei costi delle imprese, ma anche e soprattutto sul sistema Paese in cui esse operano e da cui dovrebbero essere sostenute.

Le linee direttrici su cui agire sono molteplici, raggruppabili a nostro parere in quattro macro-aree: sistema di costo delle imprese, sistema burocratico-amministrativo dello Stato, sistema infrastrutturale, sistema culturale. Si tratta di aree sulle quali stiamo lavorando per produrre proposte concrete che contiamo di poter presto presentare formalmente. Pare che il Governo nazionale, così come quello regionale, abbia colto questa urgenza e si stia muovendo nella direzione giusta. Ma non basta.

Tutti devono farsi carico del cambiamento, contribuendo alla riforma del sistema Italia e alla sua ripresa, possibilmente riformando i rispettivi assetti organizzativi se questo permette di aumentare l'efficienza e l'efficacia delle strutture.

È quello che stiamo cercando di fare al nostro interno. Confindustria regionale non ritiene di essere la depositaria della verità, ma indubbiamente custodisce nelle sue varie articolazioni un bagaglio di idee e risorse per il rilancio del Paese. Anche in questa occasione vogliamo collaborare al raggiungimento di questo obiettivo, ma non possiamo pensare di agire da soli, rischiando di perdere l'ultimo treno per agganciare la ripresa. Gli altri Paesi si sono già messi al lavoro con progettualità, grinta e determinazione e procedono convinti, con una concretezza che non fa sconti a nessuno.

*. Amministratore delegato di Fincantieri e presidente degli Industriali Fvg

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