Bonino sul caso Regeni: «Ma non si arrivi al ritiro del nostro diplomatico»

Bonino: bene la Farnesina, ma la rottura sarebbe la cosa peggiore da fare. Quello di Giulio sta divenendo il caso Egitto, cavalcare la pressione internazionale
Emma Bonino
Emma Bonino

ROMA. «Il caso Regeni sta diventando il caso Egitto. Va tenuta alta la pressione internazionale, perché ci possa essere una svolta positiva e soprattutto perché possa finalmente maturare una consapevolezza globale sul regime che impera al Cairo». Emma Bonino, ex ministro degli Esteri, figura storica delle battaglie civili e politiche del nostro Paese, interviene sulla vicenda del giovane ricercatore, approdata a un punto cruciale dopo l’esito dell’incontro tra gli investigatori egiziani e italiani.

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Onorevole Bonino, che impressione trae dalle evoluzioni sulla vicenda Regeni?

Di certo è vietato assolutamente fermarsi. Vietato demordere. Occorre piuttosto cavalcare la pressione internazionale che si sta creando intorno al governo cairota per il caso specifico e in generale per la sua gestione del potere. Intanto vengono fuori nello stesso Paese critiche sulla gestione delle vicenda: ne è un esempio la posizione di Al Ahram, giornale istituzionale, che non ha fatto mancare la critica. Inoltre vanno ricordate la risoluzione del Parlamento europeo e soprattutto le prese di posizione che giungono dagli Usa. È ormai da tempo che in molti ambienti americani si va delineando una chiara posizione su quello che accade al Cairo. Vorrei ricordare la “Lettera al Presidente Obama”, diramata sul Carnegie Middle East Center e firmata da grandi personalità quali Robert Kagan della Brookings Institution, Michele Dunne della Carnegie Endowment for International Peace e tante importanti personalità che richiamano l’amministrazione Usa sulla brutalità del regime di Al Sisi. Insomma, stanno maturando le condizioni perché il caso Regeni diventi il caso Egitto.

Come è l’Egitto oggi?

È un Egitto che sta messo peggio degli ultimi anni del periodo Mubarak. In Italia quasi da sola, negli ultimi tre anni, ho parlato della violentissima escalation di torture e sparizioni che si succedono senza sosta, in un clima repressivo che annulla qualsiasi voce dissonante, siano attivisti politici o semplici blogger o gli animatori, assolutamente laici, del movimento 6 aprile. Viene impedito alle persone di viaggiare. Ci sono migliaia di esponenti dei Fratelli Musulmani in carcere, senza alcun capo di imputazione e senza che nemmeno le famiglie sappiano in quale istituto si trovino. È lo stesso Consiglio egiziano dei diritti umani, che è peraltro un organo governativo, a denunciare le sparizioni. È questo purtroppo il contesto in cui si è realizzata la tragica morte di Giulio Regeni. Io credo che non bisogna fermarsi ma anzi estendere la rete di pressione internazionale. Perché è questo che spaventa di più il governo egiziano. La possibilità cioè che venga rotto finalmente il silenzio sulle sue pratiche. Peraltro, il regime vive enormi tensioni interne tra apparati dello Stato e corrispettivi servizi segreti. Occorre premere su queste contraddizioni.

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Roma ha richiamato il nostro ambasciatore al Cairo. È d’accordo?

Va bene richiamare l’ambasciatore per consultazioni, ma non credo invece che il ritiro sarebbe risolutivo. Dico di più: la rottura diplomatica in questo momento è la cosa peggiore che si possa fare. Da ministro degli Esteri, impiegai sei mesi per riportare in Italia la Shalabayeva e resistetti in ogni modo alle pressioni per il ritiro dell’ambasciatore e altri atti che potevano interrompere le comunicazioni. Piuttosto, credo che nel caso egiziano ci sarebbe da rafforzare la nostra presenza in loco perché solo se si è presenti con una struttura forte si possono meglio capire eventuali crepe e acquisire informazioni.

Lei che idea si è fatta sulla fine del ricercatore?

Abbiamo assistito a troppi tentativi di depistaggi e improbabili scoop perché si possa parlarne. Io mi limito a indicare strumenti per accedere alla verità. In particolare, attraverso la pressione nazionale e internazionale sul caso Regeni/Egitto.

Le primavere arabe che situazione ci hanno consegnato?

Certo assistiamo a molte difficoltà, ma queste fasi sono tipiche delle transizioni, che hanno un loro decorso di almeno vent’anni, non possiamo aspettarci che tutto si risolva nel giro di poco. È accaduto in America Latina, è accaduto con la fine della Jugoslavia, dove ci sono comunque alcune questioni ancora aperte, come il Kosovo. La conquista della democrazia non è un evento ma un processo, che passa attraverso vicende violente e dure, è illusorio che questo processo possa avanzare senza colpo ferire. Peraltro il quadro oggi si è complicato. Perché se fino a ieri ritenevamo l’equilibrio del mondo in mano sostanzialmente all’America e in seconda battuta all’Urss, oggi sono venute fuori potenze regionali, come l’Arabia Saudita, la Turchia, le monarchie del Golfo che hanno imposto la loro presenza globalmente, perseguendo peraltro interessi sovente confliggenti. Lo vediamo anche in Libia.

Al riguardo, come occorre muoversi?

Inevitabile lavorare in Libia alla prospettiva di un governo che sappia assumersi la responsabilità del controllo del territorio. Penso siano da evitare interventi militari improvvisati, che finora hanno portato a risultati quanto meno discutibili. Aggiungo che in Libia e in molti Paesi c’è anche l’enorme questione delle centinaia di migliaia di profughi provenienti da tutto il Sahel ma non solo. Il ministro francese degli Interni parla di 800mila in condizioni disumane. Un tappo che ovviamente può saltare e provocare ulteriori rovine.

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