Bon a casa: «Ho avuto paura di morire»
ROMA. Ha temuto davvero di non farcela il giovane primo ufficiale triestino Eugenio Bon. Di lasciarci la pelle su quella nave, la Savina Caylyn, tenuta in ostaggio con tutto il suo equipaggio da pirati armati fino ai denti e senza scrupoli. È stato quando, sotto la minaccia dei fucili, senza dormire né mangiare da giorni, si è sentito isolato, grazie a una strategia calcolata che cercava di mettere gli ostaggi uno contro l’altro per carpire informazioni e abbassare la tenuta psicologica dei marittimi sequestrati.
Ma il gruppo ha tenuto ed è rimasto unito, nonostante la fame, la paura, il dubbio angoscioso che tutto potesse concludersi con una tragedia. Finito l’incubo e abbracciati i genitori in una saletta riservata dell’aeroporto di Fiumicino, Bon racconta i dieci mesi più drammatici della sua vita che lo hanno segnato nel fisico e nell’anima. Nonostante venti chili di meno e la barba incolta lunga fino al petto, simile a un Robinson Crusoe. Dell’Eugenio ritratto sorridente sulla sua barca a vela, rimangono oggi gli occhi chiari e la disponibilità a raccontarsi. Perché la sua esperienza sia di aiuto a quanti si trovano o si potrebbero trovare nella sua drammatica situazione. Perché il mare resta una passione. Nonostante la bruttissima avventura il suo è un mestiere che non vuole abbandonare, «sperando di correre rotte più sicure».
Tutto si può rimuovere, ma cosa non dimenticherà mai di questa esperienza?
Il primo attacco dei pirati. Assurdo. In tanti anni di navigazione non avrei mai pensato di incappare in una situazione come quella che ho vissuto: aggredito da pirati che ti sparano addosso con i bazooka. E poi la seconda fase della prigionia, segnata da maltrattamenti e torture.
Le torture in cosa consistevano?
Pestaggi e legature a mo’ di incaprettamento che bloccavano la circolazione del sangue.
Perché lo facevano?
I pirati erano molto sospettosi per qualsiasi cosa. Quando finivano il carburante, il cibo o il diesel pensavano che nascondessimo qualche cosa, non ci credevano e ci torturavano per farci parlare.
In questi mesi dove avete vissuto?
Eravamo tutti sul ponte di comando, distesi per terra giorno e notte e sorvegliati da guardie armate. Ogni movimento, anche andare in bagno, doveva essere autorizzato e sempre scortato da una persona armata.
Come eravate trattati?
Praticamente come schiavi. Eravamo a disposizione per tutti i lavori di routine, dal trasporto delle provviste alla pulizia del ponte e dei bagni, al controllo dell’ancora. Il tutto sempre scortati. Subito dopo l’attacco siamo stati derubati di ogni cosa, avevamo solo delle tute da lavoro. In seguito ci hanno dato delle magliette e dei pantaloncini che però alla fine ci hanno razziato. Ci lavavamo con acqua salata e mangiavamo riso in bianco, una volta al giorno nell’ultimo periodo.
Ma è riuscito a mettersi in contatto con suo padre.
I cellulari e i computer ce li hanno sequestrati subito. Ma ci permettevano di parlare con le nostre famiglie attraverso il satellitare della nave. Sotto controllo, però. C’era sempre con noi un traduttore italiano.
Quando ha capito che giunto il momento della liberazione?
I pirati ci hanno avvisato che tutto si era concluso e che dovevano solo organizzare il rilascio. Poi c’è stato un altro periodo difficile, le tre settimane in cui abbiamo dovuto raggiungere gli Emirati con una nave in pessime condizioni. Eravamo provati dalla stanchezza ed è stata davvero dura.
Tornerà a navigare?
Questo è il mio mestiere. Spero di non finire più su rotte così pericolose. Mi hanno detto che le cose sono cambiate e ora saremo supportati da navi della Marina Militare. È un segnale di sicurezza per tutte le navi mercantili in transito in mari così a rischio.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo