«“Blade Runner 2”? Progetto senza senso»
Rutger Hauer, premiato ieri sera a Trieste, bolla così l’annunciato seguito del capolavoro di Ridley Scott
Rutger Hauer premiato a Trieste (Foto Lasorte)
TRIESTE Dopo aver nobilitato già l’apertura di Science+Fiction 2016 con la sua presenza, Rutger Hauer ha ritirato ieri sera alla Sala Tripcovich l’Urania d’argento come icona della fantascienza, grazie soprattutto al monologo finale del replicante Roy Batty in “Blade Runner” (1982).
Hauer si è concesso anche alla stampa, generoso di aneddoti sulla sua straordinaria carriera di 160 titoli con cineasti quali Verhoeven, Olmi, Nolan, Rodriguez, parlando a ruota libera a partire dal leggendario soliloquio del capolavoro di Ridley Scott: «Quello di “Blade Runner” è il ruolo per il quale sono nato, anche se me ne sono accorto solo anni dopo. Nella sceneggiatura il monologo non era così, era più lungo e faceva parte dell’ultimo atto del film, di un finale in crescendo forse troppo drammatico. Così con Ridley ci siamo messi al lavoro per semplificarlo e mantenere solo le ultime parti, per dire poche parole essenziali che in precedenza venivano solo suggerite”.
Come tutti sanno, le figure principali di “Blade Runner” sono proprio i replicanti, grazie ai quali si spiega anche il motivo della resistenza del mito del film. Essi non sono proprio androidi, né robot, né cyborg, né cloni, ma in fondo esseri umani, ancorché creati dall’ingegneria genetica, e la loro ribellione è in fondo una pura e semplice richiesta di vita. «Alla fine il film sembra interamente una preparazione alla morte di Roy Batty - riflette il divo olandese – Un tipo di decesso inaspettato rispetto a quello degli altri replicanti, senza scene d’azione crudeli, ma con il personaggio che lentamente si spegne e che spiega al contempo le sue ragioni e la “filosofia” del film».
Contrariamente a quanto uno possa immaginare, la lavorazione di “Blade Runner” è stata costellata da una serie di sfortune e imprevisti: «Avevo avuto l’idea nella scena finale – ricorda Hauer – di tenere in mano una colomba che poi doveva volare via. Ma forse infreddolita dalla pioggia, fece solo pochi saltelli, e così il volo fu aggiunto nel montaggio. Questo e altro mi hanno insegnato che i film che incontrano difficoltà alla fine spesso riescono meglio, e che quando la vita reale entra nel cinema, può migliorarlo. “Blade Runner” non è mai stato un successo commerciale, e forse è stato un bene, perché gli incassi lo avrebbero distrutto come mito».
Molto impegnato come ambientalista, Hauer conferma poi le preoccupazioni previste da “Blade Runner”, ambientato nell’ormai prossimo 2019: «Il sovraffollamento immaginato dal film è ormai una realtà, e non c’è dubbio che più siamo al mondo, più inquiniamo».
Il prossimo 2017, invece, sarà un anno cruciale per il cinema sci-fi, perché escono “Blade Runner 2” di Denis Villenueve e “Valerian e la città dei mille pianeti” di Luc Besson, nel quale Hauer ha una parte: «Per il film di Besson ho girato solo un giorno e per un ruolo secondario – puntualizza Hauer – ma Luc, con cui non avevo mai lavorato, è stato gentile a coinvolgermi. E poi sul set ho incontrato Ethan Hawke, che non avevo ancora conosciuto, e che potrei chiamare se una sceneggiatura che ho appena finito di scrivere diventasse un film. Il nuovo “Blade Runner”, invece, è un’operazione che per me non ha molto senso. Ma vedremo...».
Hauer infine ricorda con emozione la sua partecipazione a “La leggenda del santo bevitore” di Olmi sceneggiata da Kezich: «Un film che ha toccato la mia anima. Olmi mi chiamò dopo avermi visto promuovere “The Hitcher” in un’intervista tv. Non fu facilissimo intendersi, perché avevamo bisogno di interpreti. Però mi disse: “Fai finta di essere in un film d’azione che avvenga nella tua mente”. Nei momenti in cui ci sembrava di naufragare, la sceneggiatura era la nostra zattera, l’improvvisazione il salvagente e il romanzo di Roth il nostro faro».
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