Bigelow e l’oscura morte del nemico Bin Laden in un film temuto da tutti
Malgrado i dodici anni già trascorsi, è ancora presto per dire se l’11 settembre 2001, con tutto ciò che ne è seguito, sia stato pienamente metabolizzato dal cinema americano: sembra viceversa che lo choc sia ancora molto forte, ma anche che a questo sia subentrando un senso di colpa per gli oscuri eventi che l’hanno preceduto e che ad esso si sono succeduti: a cominciare dagli intrecci d’affari della famiglia Bush con la famiglia Bin Laden, per continuare con gli interrogativi inevasi sull’attentato alle Twin Towers, l’orrenda avventura della guerra in Iraq con l’inganno delle “armi di distruzione di massa”, la cattura e l’impiccagione di Saddam Hussein, per concludere – il 2 maggio 2011 – con la finale vittoria di Obama su Osama: ossia l’annuncio da parte del capo della Casa Bianca dell’uccisione del capo di Al Qaeda ad opera di unità del Devgru, una forza speciale statunitense supersegreta specializzata in antiterrorismo e nota anche come Seal Team Six. Uccisione anch’essa oscura, si direbbe quasi “rimossa”, così come fosca e sospetta apparve la fretta con cui il corpo (le cui immagini sono rimaste secretate, al pari di quelle dell’azione militare: clamoroso nell’era della comunicazione web-globale) fu fatto sparire in mare.. Il tutto così fulmineo e poco trasparente da ingenerare in più di qualcuno il dubbio che si fosse trattato di una gigantesca messa in scena.
La filmografia in materia è già copiosa, ma sinora prevalentemente “indiretta”: a volte claustrofobicamente narrativa (“Wtc” di Oliver Stone o “United 93 “ di Paul Greengrass), altre fortemente ideologizzata e inequivocabile (il folgorante “Redacted” di Brian De Palma e l’inappellabile “Nella valle di Elah” di Paul Haggis). Un capitolo al quale Kathryn Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal (autore anche del film di Haggis) avevano già dato un formidabile contributo con “The Hurt Locker” (2009), allucinato e implacabile studio sulla “dipendenza da rischio” in un contesto di morte e violenza talmente catafratto e asettico da essere stoltamente tacciato di un eccesso di “a-ideologia”. Segno che l’argomento scotta, e che la sintesi fra legittima difesa dalla follia terroristica (acuita dal mai sopito desiderio di vendetta per i 3000 morti delle Torri) e il rispetto dei diritti umani così duramente calpestati nell’infamia di Guantanamo è ancora un’utopia.
Alla luce di tutto questo si capisce che il progetto di “Zero Dark Thirty” (sugli schermi da domani: il titolo indica in gergo militare l’orario notturno in cui avvengono le incursioni) era sin dall’inizio temerario: ricostruire come in un war-thriller a orologeria tutto il lavoro preparatorio e poi l’azione che condussero a individuare il nascondiglio di Osama bin Laden in una villa ad Abbottabad, Pakistan, e alla sua immediata esecuzione. Raccontare, in altre parole, i fatti basandoli su fonti di prima mano, senza giudizi o sovrastrutture ideologiche, ma semmai scavando spietatamente dietro le quinte, nei corridoi del Potere, nelle beghe e rivalità fra la Cia e altri soggetti, e tenendo fisso un unico, rovente filo conduttore: la determinazione di una giovane agente, Maya (la pallida e indomita Jessica Chastain), che a questa missione dedica dodici anni della propria vita e alla quale spetterà infine il riconoscimento del cadavere.
Non si tratta di una posizione ipocritamente “terzista” (né con Al Qaeda né con la Cia), ma di un preciso e rigoroso assetto stilistico e narrativo, semidocumentaristico, che imprime al film una propulsione inesorabile, scandita per “quadri”, destinata a precipitare senza scampo nella sequenza-clou notturna, spettrale, in tempo reale, con le porte che saltano ad una ad una, i bersagli come ombre in trappola, i bimbi e le donne che piangono, gli uomini che soccombono armi in pugno: ed infine il corpo del Ricercato n.1, inquadrato solo per dettagli subliminali, condannato al non-sguardo come lo è stato nella Storia.
La Bigelow invece dà corpo, suoni, voci e apprensione all’evento, coadiuvata dalla musica cupa e sottotraccia dell’onnipresente Alexandre Desplat, riaffermandosi come una straordinaria stratega della tensione filmica (basterebbero a dimostrarlo le due sequenze nell’albergo di Islamabad e al posto di blocco…). E lo fa, appunto, quasi identificandosi con una fortissima figura femminile, rocciosa nella volontà quanto esile nel fisico, appunto Maya: proprio lei, regista accusata di essere così “maschilista” e balistica. Sopravvivendo ad attentati, ostilità dei superiori e tormenti interiori, Maya sembra voler dare un senso all’orrore soltanto perseguendo con ostinazione ferrea l’obiettivo: con una visione il cui determinismo è, evidentemente, molto “americano” ma difficilmente contestabile, ritiene che l’ottenimento dello scopo sia la sola cosa che può restituire un significato al corso deviato e sanguinoso di una Storia sfuggita di mano.
Un atteggiamento complesso e conflittuale che non è ovviamente valso a mettere il film, candidato a cinque Oscar, al riparo da polemiche e accuse contrapposte. Con una stesura iniziata prima del 2 maggio 2011 e modificata in corsa per adeguarsi ai drammatici fatti, “Zero Dark Thirty” – che inizia con i suoni reali, agghiaccianti delle voci dell’11/9/2001 su schermo nero, una scelta già fatta propria da Michael Moore nel suo “Fahrenheit 9/11”- non fa nella prima parte alcuno sconto nella rappresentazione durissima dei metodi che gli americani utilizzarono per ottenere informazioni, ovvero la tortura, cui si sentirono legittimati dalla posta in gioco. E qui proprio il racconto di Boal unito al taglio quasi horror della regista sono stati imputati di un atteggiamento giustificazionista di fronte all’ignominia della crudeltà dimostrata. Tesi difficilmente sostenibile, che confonde la rappresentazione dell’infamia con una presunta infamia della rappresentazione. Da parte opposta, cioè da destra, i Repubblicani ne hanno approfittato in piena campagna elettorale per accusare l’amministrazione di Obama di aver messo in pericolo la sicurezza nazionale aprendo alla regista l’accesso ad archivi e informazioni segrete. Il tutto puntualmente smentito dalla Casa Bianca.
Ma la ferita è aperta, e proprio in un’altra notte ben meno drammatica, quella degli Oscar, potrebbe riprendere a sanguinare.
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