Beppe Severgnini e le otto T del futuro

Da ragazzo Beppe Severgnini amava giocare a calcio, ma non possedeva la combinazione di fantasia, intuizione e tecnica necessaria per essere un campione in campo.
Del resto «nessuno sa fare tutto, ma tutti sanno fare qualcosa». Lui sapeva scrivere. «Mi piaceva farlo, e mi accorgevo di essere più convincente con una penna in mano che con una palla». Per il giornalista del Corriere della Sera, decisivo è stato l’incontro con Indro Montanelli, che ha intuito il suo talento. «Così, mi sono sentito in dovere di provarci». E ha trasformato quel talento nella sua professione. Giornalista e scrittore, appunto.
Il talento è, secondo Beppe Severgnini, una delle otto chiavi per aprire le porte del futuro. Una delle otto T che illustra in “Italiani di domani”, il suo ultimo libro che presenterà oggi pomeriggio, con inizio alle 17, nell’aula magna dell’edificio H3 nel campus di piazzale Europa dell’Università, nel corso di un incontro pubblico che sarà introdotto dal rettore dell’Ateneo Francesco Peroni (moderatore sarà poi il giornalista Beniamino Pagliaro).
Un libro, “Italiani di domani”, che Severgnini definisce «terapeutico». Se nel 2005, infatti, con “La testa degli italiani”, lo scrittore si è calato nei panni di un cicerone ironico e implacabile guidandoci in un viaggio alla scoperta del nostro Paese - «era in fondo uno studio di fisiologia dell’Italia» - e nel 2010, con “La pancia degli italiani”, ha analizzato la patologia politica del nostro Paese, ora è arrivato alla terapia.
«Credo che le grandi riforme pubbliche, di cui l’Italia ha bisogno, non serviranno se non accompagnate da piccole rivoluzioni private. Se continuiamo ad aspettare che da Roma, o da chissà dove, arrivino le soluzioni a tutto, siamo fregati. Negli ultimi cento anni abbiamo sempre delegato la soluzione dei nostri problemi: agli americani, al partito comunista, a Berlusconi, all’Europa. Ma adesso il tempo delle deleghe è finito. E i ragazzi devono prendere la vita in mano e darsi da fare. Hanno il dovere di sognare».
Anche se nel nostro Paese si evade tanto, si ruba troppo, si produce poco, si lavora male e si complica tutto. L’Italia sarà pure un Paese naturalmente conservatore, ma non tutto va conservato con cura. «E i ventenni l’hanno capito. Sanno, per esempio, che devono entrare nei partiti politici o farne dei nuovi per cambiarli, da dentro. Sanno - aggiunge Severgnini - che non andare a votare è sbagliato, perché i cattivi vogliono esattamente questo: che i ragazzi si disinteressino della cosa pubblica, della politica, così possono continuare a comandare».
Insomma, come si legge sulla quarta di copertina, «quando il gioco si fa duro, gli italiani cominciano a giocare». E i giovani italiani, altro che “choosy” e “bamboccioni”: «Non lo sono e lo stanno già dimostrando, in un Paese che ha il 37% di disoccupazione giovanile e in alcune parti addirittura il 50. Il termine bamboccione non mi piace, però ai giovani dico di andare a vedere il mondo, non dimenticando chi sono e da dove vengono. E dopo il diploma, consiglio di scegliere una buona università lontano da casa: a 19 anni fa bene».
Severgnini mette sul tavolo otto carte, otto consigli perché gli italiani di domani possano affrontare con successo la partita. «Il talento da solo non basta, perché il successo richiede costanza, regolarità. In una parola, tenacia. Così come bisogna essere pronti a salire sui treni che transitano: la scaramanzia è sciocca, le coincidenze invece sono dei segnali misteriosi che bisogna saper cogliere, con intelligenza». Il tempismo dunque è una qualità necessaria per cogliere l’occasione, quando arriva. Ma serve anche una certa dose di tolleranza, per saper scegliere, a volte, il bersaglio dopo il tiro. «È importante infatti essere elastici. Saper accettare qualche compromesso, purché decoroso. Capire cos’è buono e cosa non lo è, e reagire davanti all’ingiustizia. Darsi delle regole e rispettarle. Circondarsi di persone oneste e di buoni maestri: nel momento delle scelte sono importanti». E a proposito di maestri, secondo la penna di Via Solferino, «i professori universitari sono minatori di talento». Hanno il dovere e il privilegio di scoprirlo in quei «laboratori per il cervello» che sono le università. Basti guardare i campus americani: «lì si costruisce veramente il futuro. Si pensi a Facebook, Twitter, Google: invenzioni nate nelle università, in alcuni casi ad opera di ragazzi giovanissimi. Certo - chiude Severgnini - in Italia non ci sono campus come quello di Harvard, ma le T Town, ovvero Trieste, Trento e Torino, e le P City, per esempio Pavia, Pisa, Padova, Palermo, Perugia, sono dei campus naturali. E vanno usate e vissute come tali».
Simona Regina
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