Belgrado in pressing all’Aja: «Cure per Mladić in patria»

Il generale serbo bosniaco in carcere in Olanda, sotto processo per crimini di guerra è gravemente ammalato da tempo e i familiari ne chiedono il trasferimento
BELGRADO. Era stato catturato nel 2011 dopo un decennio di latitanza, in un piccolo villaggio non distante da Belgrado, in Serbia. E in Serbia potrebbe ritornare, per essere curato, un’eventualità che potrebbe gettare ombre sull’immagine delle autorità locali e scatenare la rabbia di vittime e sopravvissuti. È questo uno dei possibili sviluppi del caso Mladić, ex generale, leader militare dei serbi di Bosnia durante il conflitto degli Anni Novanta, imputato di fronte al Tribunale penale per l’ex Jugoslavia (Tpi) per gravissimi crimini di guerra, contro l’umanità e per genocidio, sulla sua coscienza Srebrenica e l’assedio di Sarajevo. E, sul suo capo, una sentenza attesa per la fine del novembre prossimo.


Ratko Mladić che, almeno secondo la sua famiglia, a novembre rischia però di non arrivare, per il peggioramento delle sue condizioni di salute. Per questo dovrebbe e potrebbe essere assistito in Serbia, dopo che Belgrado si è offerta mercoledì di garantire per Mladić, se il Tpi accogliesse la richiesta di libertà provvisoria. A farsi avanti, ha svelato l’agenzia Tanjug, è stato il ministro serbo della Giustizia, Nela Kuburović, che ha confermato che invierà una lettera al tribunale dell’Aja per chiedere che a Mladić, «seriamente malato» come denunciato dai suoi familiari e dal suo team difensivo, vengano riconosciute tutte cure adeguate. Aggiungendo che, « se necessario», il suo dicastero «sosterrà la proposta del collegio difensivo» che a Mladić venga «concessa la libertà provvisoria per il trasferimento in Serbia», fornendo al Tpi tutte le garanzie che vorrà chiedere, ha aggiunto una fonte del ministero alla Tv N1. È la famiglia Mladić, in testa suo figlio Darko, a spingere da sempre per questa soluzione. Darko che ha confermato di aver fatto pressioni sul governo serbo affinché offra solide garanzie per il temporaneo ritorno a Belgrado di Mladić, le cui «condizioni di salute sono cattive e in aggravamento». Intervento delle autorità serbe che dovrebbe concretizzarsi già entro questa settimana, dopo che gli avvocati dell’ex generale avranno raccolto nuova documentazione sullo stato del detenuto eccellente, già colpito da un infarto e da vari ictus durante i lunghi anni di latitanza. Dopo la discesa in campo di Belgrado, la palla passerà al Tpi, tribunale che ha però già rigettato in primavera un’istanza simile, arrivata da un garante influente, quello russo, e appoggiata da Putin in persona.


Russia che, attraverso l’ambasciatore in Olanda aveva fatto sapere che, se rilasciato e trasferito in Russia, Mosca avrebbe vigilato su Mladić per scongiurare ogni rischio di fuga. Neppure una nota del ministero degli Esteri russo - «speriamo che il Tpi prenda presto una decisione sul rilascio temporaneo» - aveva però convinto l’Aja. I giudici della Corte, infatti, avevano detto a maggio di non essere persuasi «che Mladić ritorni al tribunale se gli verrà concessa la libertà provvisoria». E avevano ribadito che l’imputato, oggi 74enne, sta ricevendo le necessarie cure in Olanda. Inoltre, le sue condizioni sarebbero ancora del tutto «compatibili con la detenzione», aveva assicurato il Tpi, respingendo l’istanza. Possibile che vada così anche questa volta, ha suggerito ieri il celebre avvocato serbo Toma Fila, in passato legale di Milošević e già impegnato nella tutela degli interessi di Jovanka Broz, defunta moglie di Tito. «A nessuno al Tribunale» dell’Aja «interessa un serbo morto, dobbiamo capirlo e iniziare pian piano a cambiare la nostra immagine», ha suggerito Fila a proposito del possibile rilascio di Mladić - che avrebbe inviato lettere al presidente serbo Vučić, definendolo l’unico politico di cui si fida e chiedendogli di «salvare» la “sua” Republika Srpska. Scarcerazione che «non credo avverrà», ha aggiunto Fila, suggerendo che il Tpi potrebbe essere preoccupato più che della morte di Mladić in carcere della «reazione delle vittime», per una possibile «accoglienza da eroe» in una Serbia dove però gli ultranazionalisti sono ormai una minoranza silenziosa. E soprattutto di una sua fuga, dopo il ritorno da presunto moribondo a Belgrado. Ma la questione è in rapida evoluzione.


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