Beatrice Masini tra Harry Potter e il falso Manzoni

di Alessandro Mezzena Lona
Non è stata una magia. Un colpo di bacchetta di Harry Potter, che Beatrice Masini ha accompagnato verso il successo traducendo gran parte della sua saga narrativa. No, perché la scrittrice minalese è entrata nella cinquina di finalisti al Premio Campiello dopo aver lavorato nei giornali, scritto libri per ragazzi, tradotto e fatto l’editor.
Un lungo viaggio sui sentieri della scrittura che la porta, adesso, a giocarsi i suoi assi per la vittoria sabato al Teatro La Fenice di Venezia. E molti sussurrano che se il Campiello decidesse di non regalare la vittoria postuma a Ugo Riccarelli, morto a luglio, e al suo “Amore graffia il mondo”, il Premio potrebbe andare proprio a Beatrice Masini. E al romanzo “Tentativi di botanica degli affetti” (Bompiani).
Ambientato nel primo ’800, scritto con grande eleganza, la “Botanica” porta in scena un personaggio che ricorda tanto Alessandro Manzoni. Alla corte di don Titta, e della sua numerosa famiglia, arriva Bianca, giovane e graziosa acquarellista, chiamata per ritrarre piante e fiori del poeta che si diletta di botanica e agricoltura. Sarà lì, dentro quella casa gremita di personaggi, che scoprirà il segreto di Pia. Una ragazza abbandonata dai genitori sulla ruota del Brefotrofio di Milano.
«Il mio romanzo è legato a luoghi veri, che conosco bene - dice Beatrice Masini -. Come casa Manzoni di Brusuglio, il paese dove abito. Sono nata a Milano, ma ho passato parte dell’infanzia e dell’adolescenza lì, dove adesso sono ritornata a vivere. E devo dire che la presenza di questa villa, rimasta inalterata nel tempo, in un posto non bello, stretto tra l’autostrada e la grande città, fa volare l’immaginazione».
Il fantasma di Alessandro Manzoni l’ha seguita a lungo?
«Ho letto molto sulla sua famiglia, sugli anni di Brusuglio, ancor di più su di lui. E ad attirare la mia attenzione è stato non tanto il divenire della creatività letteraria del Manzoni, ma la gestione del suo patrimonio familiare che lo coinvolgeva moltissimo. E poi tutta una serie di esperimenti nel campo dell’agricoltura e della botanica, a cui si è interessato a lungo».
Lei parla molto di fiori, piante, con precisione estrema...
«Sono tutti fiori, piante, che venivano coltivati proprio lì nell’800. Ed è ovvio che nel mio personaggio di don Titta, il padrone di casa, si rifletta l’ombra del Manzoni. Infatti, quando ho dovuto raccontare la casa di città dove la famiglia si trasferisce nei mesi invernali, non ho potuto non pensare al palazzo manzoniano che c’è a Milano. E che è aperto ai visitatori».
Lo spunto per il romanzo, in realtà, l’ha trovato in un archivio?
«Dieci anni fa mi è capitato di visitare l’archivio storico del Brefotrofio di Milano, nei sotterranei del palazzo della Provincia. Da lì è iniziato il mio interesse per la storia dei bambini che venivano abbandonati alla ruota della Pia Casa. E che venivano presi in consegna e affidati, poi, ad altre famiglie. Così è nato il personaggio di Pia, attorno a cui ruota uno dei misteri che racconto».
Ma il vero motore della storia è Bianca?
«Quello è un personaggio del tutto inventato. Anche se, in età vittoriana, c’erano queste “women of flowers”, le donne dei fiori, che si mantenevano facendo le acquarelliste. Di solito lavoravano sotto pseudonimo maschile, perché allora il mondo femminile era escluso dal lavoro. Io, creando il personaggio, ho voluto permettere a lei di esprimere la propria personalità, il talento, molto prima che questo fosse possibile».
Quanto tempo ha dedicato al romanzo?
«Quasi dieci anni. Ho dedicato un’attenzione particolare non solo alla storia, ma anche alla scrittura».
In finale al Campiello con il primo libro “da grandi”. Un bel colpo, no?
«Una grande gioia. I miei genitori sono di origine veneta, qundi per noi il Campiello è sempre stato il premio in assoluto. Ricordo che mamma e papà comperavano i libri dei finalisti già quand’ero ragazzina. Li leggevano, li commentavano tra loro».
Una sorta di promozione per chi arriva dal mondo dei libri per ragazzi?
«In Italia c’è una divisione rigida tra l’editoria per ragazzi e l’altra editoria. A volte, sembra che ci sia una linea invisibile che separa gli autori “veri” e quelli che scrivono libri per adolescenti. Scoprire che la Giuria dei letterati del Campiello ha giudicato il libro per quello che valeva, è stato bello. Rassicurante».
E dire che lei dovrebbe essere famosa: ha tradotto Harry Potter...
«Ma è proprio per quella linea immaginaria di cui parlavo prima che la Beatrice Masini di Harry Potter non ha molto da spartire con quella della “Botanica degli affetti”. Sono due mondi rigidamente separati».
Bello tradurre le storie del maghetto?
«Divertente, anche solo come lettrice. Non l’ho scelto io, la traduzione mi è stata proposta quando i primi due volumi erano già usciti».
Ha scritto anche lei storie per lettori “under”...
«Ho scritto storie per bambini e per lettori “young adult”. E ho capito che quando ti rivolgi ai ragazzi non puoi barare. Devi scegliere i temi giusti, non usare parole troppo difficili. E soprattutto essere sincero, diretto, senza banalizzare troppo».
Facile o difficile pubblicare?
«Dipende. Nessun autore, anche se ha già pubblicato, è mai sicuro che il prossimo libro verrà accettato. Questo accade nel mondo dell’editoria per ragazzi, ma anche se scrivi un romanzo per adulti. Per me c’è stata solo una differenza».
Quale?
«Nel mondo dell’editoria per ragazzi mi sono sempre mossa da sola. Quando ho finito di scrivere la “Botanica”, invece, mi sono affidata a un agente letterario. Sarebbe stato imbarazzante bussare alla porta degli editori da sola».
Quando ha scoperto il suo amore per la scrittura?
«Avevo otto anni, credo, e già dicevo che volevo fare la giornalista. Mi piaceva scrivere, insomma. Poi, crescendo, ho capito che fare la scrittrice sarebbe stato difficile, perché bisogna anche guadagnarsi da vivere».
Giornalista per dieci anni...
«Ho lavorato prima al “Giornale” di Indro Montanelli e poi alla “Voce”. E quando, dopo un anno, il quotidiano ha chiuso, mi sono messa a scrivere storie per ragazzi. Facendo anche traduzioni».
I racconti di ragazzina li conserva ancora?
«No, non li ho conservati. Però ricordo che scrivevo delle gran storie d’avventura. Quando la maestra ci dava un po’ di tempo per noi, io aprivo il mio quaderno e cominciavo a fantasticare, Mi piacevano moltissimo i romanzi di Emilio Salgari, anche se mia mamma avrebbe preferito altri libri. Li considerava troppo maschili».
Che libri compra?
«Poca saggistica, a parte le biografie dei grandi scrittori. Leggo molti romanzi, anche gialli se arrivano da scrittori come Michael Connelly, Ian Rankin, Jo Nesbo. Resto incantata da piccoli gioielli dimenticati come “Stoner” di John Williams».
Cosa la attira di più della letteratura anglo-americana?
«Come ha detto Elisabetta Rasy, nella recensione a “I fratelli Brugess” di Elizabeth Strout, gli scrittori anglo-americani hanno una grande passione per i personaggi. Si affezionano a loro, vogliono vedere dove vanno a finire».
alemezlo
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