Baudo contro Sanremo: «Brutte canzoni»

Il presentatore critico sulla nuova edizione del festival. E ricorda Sergio Endrigo: «Un grande con la faccia triste da esule istriano»
Di Sergio Buonadonna
Roma, Trasmissione Otto e Mezzo. Nella foto Pippo Baudo
Roma, Trasmissione Otto e Mezzo. Nella foto Pippo Baudo

Il Festival di Sanremo numero 64 è pronto ormai a partire: terrà banco dal 18 al 22 febbraio in diretta su Raiuno. Ma a giudicare dall'infuocata vigilia, il veleno scorre già a fiumi. Merito o colpa di Pippo Baudo, l'indomito che ha già dato fuoco alle polveri.

Insomma, Baudo, un Sanremo senza pensare a lei non è possibile?

«Infatti si vede da come lo fanno».

La lingua batte dove il dente duole?

«No, se mi invitassero io non ci andrei. È stata un'esperienza tra le più belle della mia vita ed è giusto che rimanga il ricordo. Lunedì 17 febbraio riceverò il premio 'Dietro le quinte' del comune di Sanremo, un'onorificenza alla militanza come veterano del Festival dato che ne ho fatti 13. Ma sarà dietro le quinte di nome e di fatto e perciò ho preteso che la cerimonia si svolga all’hotel Royal perché all’Ariston non intendo metterci piede. Non mi hanno invitato per i sessant'anni della Tv, non mi hanno invitato sul palco per il premio. Cosa ci vado a fare?».

Il premio però se lo prende. Perché?

«Statisticamente me lo danno perché sono quello che ne ha fatti di più, ma io ci aggiungerei che sono quello che li ha fatti meglio, ho lanciato pezzi bellissimi, ho fatto vendere milioni di dischi e promosso personaggi diventati famosi in tutto il mondo, primo in assoluto Bocelli. Da questo punto di vista ho un palmarès molto ricco di ricordi vincenti».

Eppoi lei è anche l’inventore dello slogan «Perché Sanremo è Sanremo».

«E del Dopo-Festival, che è diventato uno degli appuntamenti più seguiti dal pubblico. Quest’anno lo fanno sul web. Non riesco a capire a che serva se uno paga già il canone Rai. Ma poi che senso ha, il computer ce l’ha il 30 per cento degli italiani, oltre al fatto che c’è una fascia medio-alta di età che non si siede on-line per discutere del Festival».

Da Sergio Endrigo a Elisa, lei e Sanremo avete un lungo rapporto con il Friuli Venezia Giulia. Cosa conserva nel suo bagaglio?

«Intanto ci metterei anche Gino Paoli da Monfalcone. Elisa lì per lì non mi impressionò, il fatto che cantasse in inglese certamente aveva poco a che fare col Festival, ma quando poi la sentii in italiano, non ebbi dubbi. Il ricordo di Sergio è sempre vivo. Anche recentemente riascoltando alcuni suoi pezzi meno conosciuti, la memoria è andata al nostro esordio che avvenne a Palermo nel 1959 in un festival di musica leggera. Lui era nel complesso di Riccardo Rauchi, un sassofonista, partecipavano anche Marino Marini e Carosone, e il mio gruppo si chiamava Blue Moon. Endrigo cantava “Non occupatemi il telefono”, un brano spigliato, allegrissimo che contrastava con la sua faccia triste di esule istriano. Lui di Pola aveva vissuto il dramma dell’emigrazione italiana e questo stato d’animo lo portò sempre con sé. Nove anni dopo vinse il Festival con “Canzone per te”. Era il 1968 ed era il mio primo Sanremo, festeggiato con il mio amico di “Ci vuole un fiore”, la canzone con cui avevamo fatto qualche siparietto televisivo».

E poi la sua storia si incrocia con quella di Luttazzi.

«Beh, su Lelio potrei scrivere un romanzo. Ci conoscemmo quando lui era all’apice del successo. – “Studio uno” con Mina e le gemelle Kessler - , nacque un’amicizia forte che la sua ingiusta avventura carceraria se possibile rinsaldò. Fu col calore degli amici che cercammo di riportarlo alla musica anche con qualche stratagemma. Ricordo che lo costringemmo a lasciare per un giorno il suo rifugio di Cerveteri e venire a Roma. In casa di un amico gli facemmo trovare un pianoforte verticale, mi sedetti a suonarlo sbagliando volutamente degli accordi. “Sei un cane – mi disse – ma come suoni?”. D’improvviso mi dette un colpo d’anca e si mise al mio posto. Fu così che ripartì lo swing».

Che cosa tiene con sé del secondo Luttazzi?.

«La meraviglia quando Lelio si rimise in pista,con la sua verve, le idee, la commovente partecipazione a Sanremo, il suo ritorno a Trieste cui teneva moltissimo, l'amore per la sua Rosanna, la casa di fronte al bar dove lui suonava per gli americani, dove aveva incominciato a swingare. A mezzogiorno scendeva a prendersi uno spritz rivivendo col pensiero il suo vecchio mondo. Ho ancora negli occhi e nelle orecchie il memorabile concerto che tenne in piazza Unità d’Italia nel 2009 riprendendo i motivi che lo avevano reso celebre, “Muleta mia”, “El can de Trieste”, poi avremmo dovuto fare un concerto insieme al Politeama Rossetti. Venni a trovarlo per prepararlo, ma lui mi diceva non me la sento, non me la sento. Fu così che la moglie lo portò di corsa a Roma, ma fu tutto inutile, fece appena in tempo a riportarlo nella loro casa di Trieste. Il resto è noto, restano le ceneri di Lelio nel mare della sua città a ricordarci che cos' è un vero musicista».

Vuole dire che lo stato di salute della canzone italiana non è buono?

«Febbre a quaranta. Non ci sono più autori, non si scrivono più belle canzoni. La vena dei cantautori si è essiccata, i cantanti non ricorrono più agli autori di professione. Quando vent’anni fa Angelo Valsiglio mi portò “La solitudine” subito dissi: questa va bene per Laura. E la Pausini ci ha costruito la sua carriera».

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