Bandiera croata calpestata: scandalo Šešelj a Belgrado
BELGRADO. Le leadership politiche di Serbia e Croazia cercano con cautela – facendo a volte passi falsi - di diventare buoni vicini. Ma un residuato dei bui Anni Novanta, come una scheggia impazzita, prova a rovinare tutto. Per certi versi riuscendoci. Scheggia che risponde al nome di Vojislav Šešelj, leader del Partito radicale (Srs), 8% alle ultime elezioni e terzo partito (all’opposizione), condannato in via definitiva la settimana scorsa all’Aja a dieci anni di carcere – pena già scontata – per aver incitato alla pulizia etnica contro i croati della Vojvodina serba, nel 1992.
Malgrado la condanna, Šešelj continua a essere protagonista in negativo sulla scena politica. Lo conferma lo scandalo - con annesse tensioni diplomatiche ancora in corso - scoppiato l’altro pomeriggio: una giornata per certi versi storica. In agenda infatti c’era la riapertura, dopo cinque anni, della sede di rappresentanza a Belgrado della Camera dell’Economia croata (Hgk), un momento significativo per un Paese - la Serbia - dove oggi operano più di 200 imprese croate che vi hanno investito 800 milioni di euro. La sede è stata aperta, ma non come previsto alla presenza del presidente del Sabor, Gordan Jandroković, e di una delegazione parlamentare di Zagabria. La colpa? Tutta di Šešelj che, ha raccontato il suo partito in una nota, entrando al Parlamento dove era attesa anche la delegazione croata, «ha intravisto all’ingresso la bandiera croata», da lui già bruciata in passato. E così ha preso il vessillo, «ha cercato di distruggerlo e poi l’ha calpestato». Non contento, è andato incontro ai rappresentanti di Zagabria. E ha insultato con frasi non virgolettabili «la madre ustascia» dei colleghi croati.
L’incidente, che non è stato filmato, è stato confermato dalla portavoce del governo croato, Suncana Glavak, che ha svelato che la delegazione guidata da Jandroković – dopo consultazioni con il premier Andrej Plenković – ha abbandonato immediatamente Belgrado, malgrado dovesse fermarsi in città anche ieri. Si è trattato di un «atto incivile e inaccettabile», quello di Šešelj, che ha rovinato «una visita iniziata bene» e poi interrotta, «malgrado la volontà di fare il nostro meglio per migliorare le relazioni tra i due Paesi», ha specificato una nota del Sabor.
Il caso Šešelj si è inevitabilmente riverberato sulle fragili relazioni Zagabria-Belgrado, malgrado l'immediata «condanna» senza mezzi termini da parte della premier serba, Ana Brnabić, il cui entourage ha ieri rivelato alla Tanjug che Brnabić stessa ha subito chiamato l’omologo croato Plenković dopo l’incidente, ma che il premier croato non ha risposto: «Non un buon segnale». Brnabić ha ribadito che «la Serbia di Šešelj non è la Serbia di oggi». Meno severo è apparso il commento del presidente serbo Aleksandar Vučić, che ha dichiarato che «è nostro compito condannare» quanto accaduto ed è «ciò che ci differenzia dai croati, che non hanno stigmatizzato», quanto successo quando «io ero a Zagabria», a febbraio. Al tempo «sono state bruciate bandiere serbe», «mi hanno chiamato cetnico, ma non sono state ragioni sufficienti per andarmene».
Il caso – che ha spinto Zagabria a consegnare una nota di protesta all’ambasciatrice serba, che ha però rifiutato di riceverla - ha tenuto banco anche ieri, spingendo persino la Commissione europea a condannare l’exploit di Šešelj. A parlare è stato di nuovo il premier croato Plenković, che ha chiesto «una condanna ferma e inequivocabile». Mentre la presidentessa Kolinda Grabar Kitarović, citata dalla Tv N1, ha detto che le relazioni serbo-croate sono state danneggiate. E ha chiesto che «la Serbia verifichi se Sešelj ha fatto quanto detto» e che in caso «lo punisca in maniera adeguata».
Ma Šešelj non vuole fermarsi. E ieri ha addirittura confermato che il 6 maggio andrà a Hrtkovci, il villaggio in Vojvodina dove pronunciò il discorso per ordinare ai croati di andarsene, nel 1992. E lì la sua sola presenza infiammerà gli animi, ben più di una bandiera calpestata.
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