Balcani, la piaga dei delitti d’onore in Albania

Omicidi in base al codice medievale “Kanun” Almeno duecento casi tra il 1998 e il 2012

BELGRADO. Due donne, sposate a due fratelli, ammazzano la comune suocera «versandole olio bollente nell’orecchio», per punirla di un abuso subito in passato. Un anno dopo, uno dei due mariti uccide il cognato, il fratello dell’ormai ex moglie, per vendetta. Lulzim aveva invece assassinato nel 1991 il suo compagno di cella, durante una lite. Nel 2013, dopo esser stato scarcerato, i fratelli della vittima lo fanno fuori. Tom uccide suo cugino «per una disputa sulla proprietà». Dopo l’omicidio la famiglia del killer si barrica in casa, terrorizzata dalla vendetta. Come tante altre. Sono scene da un Paese – l’Albania – che fa veloci progressi, si modernizza. Ma retaggi del passato fanno ancora fatica a essere archiviati. Uno di essi è quello delle vendette di sangue, problema che ha causato centinaia di vittime negli ultimi decenni.

A riportare alta l’attenzione sul tema è stata in questi giorni “Operazione Colomba”, il Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, attivisti che da anni si battono per contrastare la piaga delle faide. Operazione Colomba ha reso pubblico un rapporto triennale che include alcune storie di vendetta tratte dai principali quotidiani albanesi, come quelle di Tom e delle mogli assassine. E che illustra un fenomeno – basato su erronee interpretazioni del “Kanun”, il codice medievale albanese - che rimane radicato in alcune frange della società, quelle più povere e meno acculturate. Alla sua base, il concetto distorto di «protezione dell’onore». Ancora oggi, in alcune parti del Paese – quelle dove lo Stato è meno presente, nelle periferie urbane e nel nord, ma anche all’estero, perché la vendetta si esporta – l’assenza dello Stato è colmata dalla legge “medievale”, dalla giustizia privata. Giustizia che si basa su due concetti. La “hakmarrja” è il primo atto di vendetta, una «reazione violenta» a un’offesa, precisa Operazione Colomba, che può nascere da problemi di lavoro, economici, da liti per la proprietà o familiari. Poi può arrivare, anche a distanza di anni, la “gjakmarrja”, la «presa del sangue», la risposta di chi ha subito la prima rappresaglia. Che innesca un circolo vizioso di vendette. E fenomeni come quelli degli «ngujimi», i “murati in casa”, reclusi per sottrarsi alle faide.

Quali sono le dimensioni del fenomeno? Parlare di centinaia di morti negli ultimi due decenni non è un’esagerazione, ma i dati sono controversi. Quelli del ministero degli Interni di Tirana, ad esempio, rilevano per il periodo 1998-2012 oltre 200 omicidi per gjakmarrja, ma varie Ong hanno accusato le autorità di aver sottostimato il problema. Anche i nuovi numeri resi noti da Operazione Colomba fanno riflettere. Secondo il suo monitoraggio, i casi di vendetta violenta negli ultimi tre anni sono stati 156, di cui 141 «nuovi casi di hakmarrja», calderone dove vengono accomunate azioni violente, crudeli, ferimenti e assassinii e «15 nuovi casi di «gjakmarrja», omicidi veri e propri. Fenomeno che, rispetto al periodo 2011-14, ha registrato «un aumento dei casi di hakmarrja e un andamento costante dei casi di gjakmarrja», precisano gli attivisti. Cosa fare? Aiutare, come fa Operazione Colomba, le famiglie coinvolte a uscire dal tunnel della vendetta, con il dialogo e la mediazione. E ponendo un argine al regolamento di conti, ha suggerito l’ombudsperson Erinda Ballanca. Con maggiore presenza dello Stato. E maggiore educazione.

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