Badanti non in regola e anziani senza cure: a Trieste rebus welfare
TRIESTE Badanti tornate nei propri Paesi di origine. E anziani rimasti senza assistenza. I contraccolpi dell’emergenza coronavirus si stanno facendo pesantemente sentire su una delle colonne portanti del sistema welfare: il lavoro domiciliare. Un problema già sollevato a livello nazionale e che ha forti ricadute anche in Friuli Venezia Giulia e a Trieste in particolare, visto l’elevato tasso di ultra settantacinquenni che hanno bisogno di aiuto a casa.
Difficile quantificare il fenomeno visto che soltanto una fetta delle badanti è regolarmente sotto contratto. Ma le dinamiche sono apparse chiare fin dall’inizio, da quando cioè è esploso l’allarme in tutta la sua gravità. Basta pensare ai due pullman di cittadini ucraini rimasti bloccati alcune settimane fa a Fernetti: erano pieni di operai e badanti che lavoravano in Italia e che, dopo le prime misure restrittive attuate per le zone rosse (divieto di spostamento da un Comune all’altro), si erano ritrovate in difficoltà, tanto da scegliere di allontanarsi in fretta e furia dal nostro Paese. D’altronde chi presta servizio “in nero” non può esibire un’autocertificazione professionale valida per poter muoversi tranquillamente. E così molti stranieri hanno deciso di fare i bagagli e lasciare l’Italia alle prime avvisaglie.
Criticità che si sono fatte via via più pesanti nei giorni successivi con il divieto totale di uscire di casa, se non per comprovati motivi. Anche in questo caso, chi non è in regola, non può recarsi liberamente dall’anziano assistito. Come giustificherebbe lo spostamento, qualora fermato in strada dalle forze dell’ordine?
Non solo. Con il blocco degli esercizi commerciali, a cui ha fatto seguito quello industriale, alcune famiglie – figli e nipoti – si sono rese conto del rischio di ritrovarsi nell’impossibilità di retribuire le badanti. L’assistenza degli anziani genitori o dei nonni che non hanno una pensione sufficiente, non viene quindi delegata.
Su Trieste grava inoltre il problema del “pendolarismo” delle collaboratrici domestiche croate che non risiedono qui e quindi hanno difficoltà a spostarsi agevolmente da un confine all’altro. Molte hanno fatto rientro nel proprio Paese. Un quadro ancora più complesso se si pensa alle badanti che sono mamme: i figli in queste settimane non vanno a scuola, quindi le madri devono prendersene cura a casa.
Le Acli, in prima linea nel settore, stanno monitorando costantemente le necessità delle collaboratrici domestiche assunte dalle famiglie attraverso i servizi di patronato. «Da giorni ci arrivano domande molto precise – spiega Valentina Benedetti (Acli Fvg)-. C’è chi ad esempio lavora sia la mattina sia il pomeriggio e ci chiede se può beneficiare dei contributi per la babysitter. Perché, ovviamente, se stanno a casa con i bambini, non lavorano più. Ce ne sono altre, poi, che fanno le pendolari dalla Croazia e per le quali c’è una difficoltà obiettiva ad andare avanti e indietro da Trieste».
L’altra grande questione riguarda la sicurezza personale: le collaboratrici domestiche assunte, quindi a tutti gli effetti dipendenti delle famiglie presso cui prestano servizio, come si devono comportare durante l’orario di lavoro per evitare il rischio del contagio? Chi fornisce alle badanti le mascherine (che ormai scarseggiano anche nelle strutture sanitarie) e altri strumenti di protezione? «Quella delle badanti è la categoria che in questa situazione si trova priva di qualsiasi tipo di tutela – spiega Erica Mastrociani, presidente regionale delle Acli – perché è una figura che non viene compresa in nessuno dei decreti. Come Acli nazionali stiamo cercando di fare un ragionamento a livello di governo». Per segnalare criticità le Acli hanno a disposizione una mail (trieste@acli.it) e un numero di telefono (339 7731201). —
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