Azienda sanitaria giuliano isontina, i medici delle Terapie Intensive: «Nessuno di noi si tirerà indietro. Siamo abituati alle sfide difficili»

TRIESTE. La paura più grande è quella di dover dire: non c’è posto. Quello di Terapia intensiva è forse il reparto più delicato di un ospedale, quello dove finiscono le persone che non riescono a respirare in maniera autonoma. Giorgio Berlot, direttore della Struttura complessa Anestesia rianimazione e Terapia antalgica, e Umberto Lucangelo, responsabile del Complesso operatorio e direttore dell’Emergenza-urgenza, Day surgery e Anestesia e rianimazione, lavorano da 30 anni insieme, spalla a spalla, e in tutti questi anni non avevano mai visto uno scenario simile.
«Le polmoniti sono il nostro pane quotidiano - racconta Berlot -, questa però è diversa perché ha una degenza molto lunga che può arrivare anche a tre settimane quando in genere, dopo una sola settimana, si procede alla dimissione del paziente». Il messaggio è chiaro ed è quello di rispettare le disposizioni delle autorità anche per evitare nuovi contagi. «Sappiamo - aggiunge Berlot - che il 10% delle persone che contrae il virus finisce in Terapia intensiva. Abbiamo allestito nuovi posti e zone dedicate però serve responsabilità da parte di tutti perché siamo forse a metà strada e questa è una patologia altamente contagiosa».
«Abbiamo avuto fin da subito la percezione di quello che sarebbe potuto succedere - spiega Lucangelo - e quindi ci siamo organizzati con 15 posti di Terapia intensiva dedicati ai Covid-19 in un ambiente a pressione negativa che garantisce la minor dispersione ambientale. Abbiamo ulteriori 16 posti a Gorizia e stiamo lavorando al dodicesimo piano della torre Medica di Cattinara dove verranno allestiti 24 posti letto ex novo entro il mese di marzo. L’ospedale però non va in ferie e anche se l’attività è ridotta abbiamo comunque la necessità di avere dei posti letto di Terapia intensiva standard: ne abbiamo creati 16 nelle aree post operatorie e di recovery room».
Anche tra gli operatori sanitari in queste settimane il livello di attenzione, già normalmente alto in situazioni come quelle della Terapia intensiva, è ulteriormente salito: «La vestizione del personale richiede dai 10 ai 15 minuti - spiega Berlot - e ancora più tempo è necessario quando togliamo i Dpi: del resto quello è il momento più critico per un possibile contagio. Dentro il reparto lo sforzo fisico è importante perché i pazienti vanno girati e il lavoro di medici, infermieri e Oss è enorme, ma il gruppo sta reagendo bene con determinazione. Il personale è abituato a condividere soprattutto gli oneri e i pochi onori».
Il lavoro sulle 24 ore è organizzato in tre turni, ognuno dei quali coinvolge tre medici e cinque infermieri. I pazienti, che arrivano anche dalla Lombardia dove la situazione è drammatica, sono sedati e intubati quindi con loro non c’è interazione, ci sono invece i contatti con i parenti che avvengono soprattutto al telefono perché un altro dei drammi del Covid-19 è la solitudine. «Tutta l’Asugi - racconta Lucangelo - sta rispondendo alla grande con il personale delle sale operatorie (dove le attività programmate sono state sospese se non urgenti, ndr) che sta facendo la formazione per poter lavorare anche nelle Terapie intensive.
C’è voglia da parte di tutti di rendersi utili. Nessuno, compresi operatori del comparto tecnico e ingeneri impegnati ad allestire le strutture, si sta tirando indietro». E gli utenti? «Hanno capito la situazione e non stanno affollando gli ospedali se non per motivi urgenti e importanti. L’appello è quello di restare a casa il più possibile e di ascoltare le autorità».
Per il personale sanitario il Covid-19 è un compagno di viaggio invisibile: «Quando arrivo a casa tengo la televisione spenta - confida Berlot - anche perché c’è il rischio di somatizzare questa situazione. Ogni tanto mi misuro la febbre o annuso il barattolo del caffè visto che una delle manifestazioni del virus è legata alla perdita dell’olfatto. Ogni giorno c’è uno sforzo intellettivo importante. Di esperienza ne abbiamo ed eravamo attrezzati per affrontare qualsiasi situazione come terremoti o gravi traumi, ma mai avremmo pensato di dover affrontare una pandemia di questo tipo. Penso che l’unico Paese in grado di farlo sia Israele. Asugi fortunatamente si è mossa per tempo, però serve l’aiuto di tutti».
La paura più grande per un medico è quella di non poter curare un paziente, nelle Terapie intensive le scelte si fanno tutti i giorni cercando di non accanirsi contro il malato. «Speriamo di non aver lo stesso iter di Bergamo e Brescia dove stanno decidendo chi accogliere e chi no: sarebbe un incubo. Per noi sarebbe la prima volta, di decisioni complicate ne prendiamo tutti i giorni, ma sono legate ai farmaci e al tipo di cure non a decisioni simili», racconta Berlot.
«Nei momenti del bisogno - conclude Lucangelo - sappiamo tirar fuori il meglio da noi stessi e così stanno facendo tutti, anche quanti prima dell’emergenza erano critici, quando non addirittura ostile, verso il personale sanitario. Oggi anche loro hanno compreso la difficoltà del momento e l’impegno che mettiamo in campo tutti i giorni».
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