Anziani uccisi con l’anestesia, «Aumentare la pena per l’ex medico del 118». La richiesta del pm per i nove omicidi

L’esito dell’udienza in Corte d’Assise d’appello. Domandati 24 anni e 6 mesi di reclusione. Nella prossima parlerà l'imputato

Gianpaolo Sarti
L’imputato Vincenzo Campanile con gli avvocati Alberto Fenos e Manlio Contento mentre entrano in aula
L’imputato Vincenzo Campanile con gli avvocati Alberto Fenos e Manlio Contento mentre entrano in aula

Il monfalconese Vincenzo Campanile, l’ex anestesista del 118 di Trieste già condannato in primo grado a 15 anni e 7 mesi di reclusione per l’omicidio volontario di nove anziani affetti da gravi patologie – secondo l’accusa uccisi con iniezioni di potenti sedativi tra cui il Propofol –, rischia un aumento della pena.

Ieri (30 gennaio) è andata in scena una lunga udienza in Corte d’assise d’appello. Campanile era in aula. Il pm della Procura di Trieste Cristina Bacer, che si era occupata delle indagini assieme alla collega Chiara De Grassi, al termine della sua requisitoria (con a fianco il procuratore generale della Corte di appello Carlo Maria Zampi) ha formulato la sua richiesta: rideterminare la pena a carico di Campanile in 24 anni e 6 mesi di reclusione, a fronte appunto dei 15 anni e 7 mesi stabiliti in primo grado.

Il pm, in buona sostanza, ha domandato alla Corte (presieduta dal giudice Paolo Alessio Vernì, consigliere relatore Andrea Odoardo Comez) di confermare la condanna di primo grado ma con l’accoglimento del ricorso della pubblica accusa in Cassazione (convertito in Appello). L’impugnazione, nello specifico, mira all’esclusione del riconoscimento di un’attenuante specifica, cioè quella regolamentata dall’articolo 62 n° 1 del Codice penale, che era stata concessa nella sentenza di primo grado: cioè «l’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale».

Perché l’ex anestesista del 118 intendeva sì «uccidere», così si leggeva nelle motivazioni della sentenza emessa l’anno scorso dalla Corte di assise di Trieste (presieduta dal giudice Giorgio Nicoli), ma lo aveva fatto «per interrompere la sofferenza» dei pazienti che stava soccorrendo. Il riconoscimento di questo aspetto, precisava la Corte nel processo di primo grado, «non deriva certo da un apprezzamento della condotta dell’imputato, bensì dalla considerazione che essa è stata motivata da un intento in sé meritevole di considerazione, ossia la cessazione della sofferenza: il medesimo obiettivo cui mirano le cure palliative, anche se perseguito con modalità illecite».

Bacer ieri, rivolgendosi alla Corte di assise di appello, ha domandato di negare questa attenuante. L’udienza ieri è cominciata con la richiesta, presentata alla Corte da uno dei legali dell’imputato, l’avvocato Alberto Fenos (in aula con il collega Manlio Contento), di considerare due studi scientifici internazionali: uno sulle concentrazioni del Propofol nel cervello in caso di iniezioni del sedativo e uno sulle tempistiche di sopravvivenza dei pazienti dopo la sedazione palliativa.

La Corte ha concesso la possibilità di esaminare la documentazione, mentre gli avvocati di parte civile si sono riservati di analizzarla. Dopo la requisitoria del pm Bacer sono intervenuti i legali di parte civile, dunque dei parenti delle vittime: gli avvocati Giuliano Iviani (che tutela una famiglia), Antonio Santoro (quattro famiglie) e Maria Genovese (una famiglia). L’Asugi, a processo nella doppia veste di parte civile e responsabile civile (in quanto datore di lavoro dell’imputato all’epoca dei fatti), è difesa dall’avvocato Giovanni Borgna che prenderà parola nel corso della prossima udienza. E in quella sede sarà audito — © RIPRODUZIONE RISERVATA

 

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