Attentato a Barcellona, i richiedenti asilo di Trieste: «La religione non è morte»
TRIESTE. «Non chiamateli musulmani, la religione con quegli assassini non c’entra niente». La strage di Barcellona non ha lasciato indifferenti i richiedenti asilo che si trovano a Trieste. Mentre escono a gruppetti dalla mensa della Caritas di via dell’Istria, accettano di parlare e di farsi fotografare, «perché vogliamo schierarci apertamente contro le uccisioni fatte nel nome di Allah», ribadisce Mohamad Ahmed.
«Lo scriva - esordisce con tono quasi supplicante Hasan Osman Adan, un ventunenne somalo che è arrivato a Trieste poco più di un anno fa -. Quella è gente pazza, bevuta e drogata. La religione è solo un pretesto per dare sfogo al proprio malessere».
Adan è arrivato in Italia da Mogadiscio, dove studiava all’università per poter diventare infermiere. «Noi rifugiati veniamo in Europa proprio per scappare dalla violenza - puntualizza - e ci sentiamo ancora più coinvolti quando qualcuno uccide nel nome del nostro stesso dio».
Afghanistan, Iraq, Pakistan, Somalia: cambiano le nazionalità, ma tutti i profughi intervistati convergono sul fatto che una responsabilità «enorme come quella di un’uccisione» non debba ricadere su chi professa la religione musulmana. Hawri Jabbar ha meno di trent’anni e arriva dall’Iraq.
«È quello che vogliono ottenere i terroristi - spiega - , portarci a una guerra tra civiltà, tra il mondo musulmano e l’Occidente. Eppure quanti musulmani vengono uccisi da Daesh?». Jabbar faceva il poliziotto in Iraq. «Mi hanno sparato - racconta mentre mostra una profonda cicatrice sul braccio -. Ho anche dei video che mostrano le violenze che ho subito, ma è giusto che io lo mostri alla Commissione che valuterà la mia posizione».
A Jabbar vengono gli occhi lucidi, mentre risponde alle domande sul Daesh: «Andate a vedere voi giornalisti cosa ci fanno a noi in Iraq - le sue parole -. E chi ci giudica perché siamo musulmani, vada a vedere cosa stanno facendo i peshmerga curdi per fermare quei pazzi. Non si può uccidere e non si può uccidere nel nome di una religione. Lo stesso papa Francesco dice che i musulmani non sono terroristi».
Hamid Khan ha lasciato Mohmand Agency, in Pakistan, ed è arrivato a Trieste da quasi tre mesi. Dorme al Silos, come molti dei suoi compagni. «Gli italiani sono persone buone - confessa -. Non ho mai avuto problemi con loro. Non penso che mi considerino un terrorista solo perché sono musulmano. Terrorismo e religione sono due parole inconciliabili».
Rehman Anees annuisce, mentre ascolta il connazionale. «Noi siamo scappati dal nostro terrorismo - sottolinea - e pensare che qualcuno ci possa considerare dei potenziali terroristi mi offende. Non tutti i pachistani sono brave persone, ma lo stesso discorso lo possiamo fare anche con gli italiani e con ogni altra nazionalità. Dobbiamo educare i giovani, già a partire dalla scuola: dobbiamo far capire loro dove sta il bene e dove il male, dobbiamo educare alla pace».
L’iracheno Mahdi Mohai, invece, crede di avere poche possibilità di integrazione finchè sarà costretto a dormire a terra, all’interno del Silos. «Ho la vitiligine - spiega mostrando le carte del Pronto soccorso e le gambe e le mani segnate - e devo prendere delle medicine. Vivo all’aperto da mesi e per questo soffro».
Eppure non si tira indietro, il trentasettenne di Baghdad, quando si tratta di rispondere a chi pensa che ogni musulmano sia un possibile terrorista: «Chi uccide una sola persona, uccide l’intera umanità», afferma lapidario citando il Corano.
Saber Shamal ci tiene a raccontare come è arrivato in Italia, «passando dalla Turchia alla Grecia nascosto nel rimorchio di un camion e raggiungendo Ancona a bordo di una piccolissima barca». Shamal mostra i tatuaggi che si è fatto da solo sulle mani per ricordare i propri genitori.
«Mia madre è morta e la ricordo anche con questa scritta», spiega porgendo la sua mano. Accanto alla scritta ci sono alcune cicatrici, «ma preferisco non parlarne». Prima di allontanarsi dalla mensa di via dell’Istria, però, Shamal aggiunge: «È importante conoscere le persone - la sua conclusione -, non avere paura di chi è diverso, non fermarsi alla religione oppure al colore della pelle».
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