«Assenza di sfogo e sensi di colpa: caregiver travolti dal lockdown»

Deponte, coordinatrice di CasaViola, punta l’attenzione sulle difficoltà dei familiari di cui si prendono cura
Antonella Deponte
Antonella Deponte

TRIESTE. Nell’epoca Covid- 19, si è parlato molto della condizione dei caregiver, le persone che si prendono cura dei più fragili, a cui in genere sono legati da un rapporto di parentela. Per loro, mantenere la vicinanza con i propri cari, in particolare anziani, è stato, e continua a essere, particolarmente complicato. Molto spesso, infatti, è mancato il supporto degli operatori domiciliari, impossibilitati ad accedere alle case. Tante volte invece è mancata la presenza di altri familiari che sono rimasti confinati nelle loro abitazioni. Altre volte, si è preferito non chiedere aiuto pensando così di non sovraccaricare il sistema sanitario. E anche per i parenti degli ospiti delle case di riposo, questi mesi sono diventati in alcuni casi fonti di angoscia e preoccupazione.



Secondo Antonella Deponte, consulente familiare, dottore di ricerca in psicologia e coordinatrice di CasaViola, la struttura dell’Associazione de Banfield dedicata ai caregiver di persone con demenza, «il lockdown è stato parecchio duro per chi condivide la casa con gli anziani fragili, considerando che si tratta di una convivenza che è sempre abbastanza difficile. I caregiver si sono trovati a non poter uscire di casa, a non poter più fare “i due passi” che sono molto spesso una valvola di sfogo e un’occasione di pace sia per il caregiver stesso che per la persona presa in cura. Diverse routine si sono interrotte come fare la spesa o fare un giro in macchina».


«Un’altro elemento che è pesato – osserva Deponte – è il fatto che molti assistenti familiari non hanno potuto lavorare perché sono tornati a casa, spesso nel loro paese estero, per paura del contagio o prima che tutto chiudesse. Per i figli che avevano i genitori in un’altra casa, senza aver una sorveglianza e un’assistenza adeguata, è stato davvero un grosso problema. Qui a Trieste molti coniugi si sono trovati, ad esempio, ad affrontare da soli un’assistenza fisica importante». Con l’interruzione dei servizi esterni e dei centri diurni, inoltre, la situazione per i caregiver si è appesantita ulteriormente. «Un altro gruppo di caregiver che seguiamo è quello che ha ricoverato i familiari in casa di riposo – fa notare la coordinatrice di CasaViola –. Per loro sono arrivate molto presto le apprensioni, le paure e le incertezze date soprattutto dalla mancata comunicazione su come stavano realmente le cose, dal punto di vista sanitario, fin dall’inizio. E questo ha portato alla creazione delle fantasie più terribili, accentuate dalla difficoltà a sentire e vedere i propri familiari».



Non in tutte le case di riposo, infatti, è stato facile per gli operatori mettere in contatto ospiti e famiglie, attraverso chiamate e videochiamate. «Alcune realtà hanno subito adottato una politica di trasparenza e in questi casi è andata meglio. Nelle persone però è rimasto il senso di colpa che fa chiedere loro: «E se avessi tenuto il mio familiare a casa?». Temo, quindi, che per un po’ le persone faranno fatica a inserire i familiari nelle case di riposo. Non per le strutture in sé, dato che in molti casi i parenti hanno riconosciuto che ci si è mossi in maniera corretta, quanto perché questo periodo ha risvegliato, appunto, i vecchi sensi di colpa che si sono moltiplicati». Sono riemersi i pensieri, quelli che fanno scegliere in un modo o nell’altro. «Infine – conclude Deponte – c’è un terzo gruppo di caregiver che non andrebbe sottovalutato: chi ha avuto, in famiglia, una diagnosi di demenza subito prima del lockdown. E così si è ritrovato senza la possibilità di rivolgersi ad ambulatori specializzati perché era tutto chiuso».—

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