Assalto di 20mila rifugiati E la Slovenia schiera l’esercito

Nel campo d’identificazione di Brežice dove i profughi attendono di prendere un treno per l’Austria. Il giovane siriano Amjad: «Da un giorno e mezzo senza cibo e acqua». E la Croazia vuole il suo muro
Il campo di identificazione di Brezice
Il campo di identificazione di Brezice

BREZICE (Slovenia) Fango. Sradicato dal suolo dagli enormi pneumatici dei blindati, trasportato dentro e fuori dal campo dagli stivali neri delle guardie e risalito sulle caviglie e sugli stinchi di chi ha passato la notte all’aperto sotto la pioggia. Il campo d’identificazione di Brežice è una chiazza di melma molle e scivolosa. All’interno ci sono duemila persone, forse tremila, come stima Amjad, un giovane siriano di 23 anni a cui gli ufficiali hanno appena autorizzato l’uscita. Impossibile verificare. L’accesso è permesso solo alle forze dell’ordine, presenti qui in tutti i loro diversi corpi nazionali (polizia, esercito, protezione civile, pompieri…) e ai volontari della croce rossa. Le telecamere, invece, devono pazientare all’esterno, oltre un cordone di sicurezza, limitandosi a sbirciare con i lunghi obiettivi.

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Il cancello che segna l’inizio del campo è presidiato da decine di agenti in tenuta antisommossa e armati di scudi di plexiglas. Se ne stanno schierati a fianco di un mezzo corazzato blu, oppure in piedi su una torretta improvvisata da cui sorvegliano la folla che preme contro l’uscita. «Ehi voi! Non spingete contro la porta! Partirete tutti, ma dobbiamo aspettare gli autobus», spiega un poliziotto, gridando al megafono. La situazione non accenna a calmarsi. «É un inferno là dentro! - esclama il giovane Amjad, ormai fuori dal centro di transito. Ci ho passato un giorno e mezzo, senza mangiare e senza bere. Se dici “ho fame” o “ho sete”, ti viene detto di aspettare. Ma aspettare cosa? Di morire?». Amjad grana gli occhi e allarga le braccia. Ora che si trova in coda per salire sulla corriera, è più sollevato, anche se le preoccupazioni non sono finite.

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«Mi hanno separato da mio fratello, devo assolutamente ritrovarlo, anche perché ha il mio passaporto e i soldi». Davanti a lui, i cinque autobus scortati da due pattuglie della polizia si riempiono lentamente. Partiranno a breve per la stazione ferroviaria più vicina, dove i profughi potranno poi prendere un treno per l’Austria. Amjad vuole andare in Norvegia, dove vive già suo fratello maggiore e dove spera di poter continuare gli studi in ingegneria informatica e letteratura inglese. «A Damasco si possono scegliere due corsi paralleli!», assicura. Nella capitale siriana, sono rimasti soltanto mamma e papà con l’ultimo fratello, più piccolo. «Ho provato a convincerli a venire, ma sono troppo affezionati alla casa. Non hanno voluto», afferma scuotendo la testa. Se i suoi genitori hanno preferito aspettare, Radi, la giovane donna siriana che fa la coda assieme a lui, ha deciso di intraprendere la “rotta dei Balcani” anche se è al quarto mese di gravidanza. “Mi sento stanca. Stanotte, ho dormito all’aperto nel campo. Faceva molto freddo”, dice, mentre tiene le braccia incrociate davanti al petto.

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Com’è possibile che la mancanza di organizzazione sia arrivata fino a questo punto? Lubiana risponde additando la Croazia, colpevole di trasportare alla frontiera comune un numero eccessivo di persone. Zagabria alza le spalle, sostiene che «i rifugiati devono andare avanti» e, soprattutto, non ha intenzione di rimanere con il cerino in mano. «Se la Slovenia o l’Austria dovessero decidere di rallentare ulteriormente il flusso in arrivo nel loro paese, non avremo altra scelta che costruire anche noi una barriera al confine serbo», ha confidato al quotidiano croato Jutarnji List una fonte anonima interna al governo di Zoran Milanovic. Si tratterebbe del cosiddetto “Piano D”, l’ultima spiaggia di un esecutivo alle prese con un esodo che non sa più come gestire.

Dal 16 settembre, data in cui l’Ungheria ha sigillato il suo muro con la Serbia, la Croazia ha registrato più di 205mila ingressi. La Slovenia ne ha contati 8mila nella sola giornata di lunedì, oltre 20mila da venerdì sera, quando la rotta è cambiata nuovamente per via della chiusura dei valichi tra Croazia e Ungheria. «Siamo lo stato più piccolo sulla rotta dei Balcani, con capacità ridotte, sia in termini di vigilanza che di accoglienza», si giustifica Lubiana, che ha deciso ieri il dispiegamento delle forze armate per «controllare e limitare l’afflusso migratorio».

In particolare, le autorità slovene vogliono evitare gli ingressi non segnalati, che hanno portato in un paio di giorni circa 2mila persone a varcare “spontaneamente” il confine meridionale del paese. Ieri, dopo che un folto gruppo è entrato alle dieci di mattina nei pressi di Hamica, il governo di Miro Cerar ha deciso di interrompere ogni tipo di traffico al punto doganale di Rigonce. Un elicottero è stato inviato a sorvolare i campi di granoturco, mentre i rifugiati ormai giunti in terra slovena sono stati sistemati in un’ex-fabbrica di Dobova. Nel prato del fabbricato abbandonato, centinaia di persone sono sedute, mangiano il cibo in scatola portato dalle ONG. I loro abiti, zuppi di pioggia, sono stesi al sole sulla rete metallica che li rinchiude.

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