Antonio Ciana, l’archivista che immortalò per amore il tempo scandito di Trieste

TRIESTE Ha fotografato Trieste per sessant’anni, raccontando lo sventramento delle case, l’abbattimento degli edifici del 700 e dell’800, il cambiamento del paesaggio urbano e umano, il vecchio che muore e il nuovo che avanza. Antonio Ciana, di professione funzionario della Ras - Riunione adriatica di sicurtà, ma nel tempo libero appassionato fotografo documentarista, dal 1910 al 1970 ha usato a piene mani lastre, pellicole, sviluppi, fissaggi e carte sensibili. Lo ha fatto con determinazione e impegno a tratti compulsivi, riuscendo a fermare per sempre nei granuli d’argento dei suoi negativi gli angoli della città che di lì a poco sarebbero scomparsi. Ha puntato l’obiettivo della sua “Zeiss” su muri, case, portoni, vie ed edifici che i professionisti dell’immagine non degnavano di uno sguardo e ha realizzato a livello di documentazione un piccolo capolavoro. Più che per il proprio tempo Antonio Ciana ha lavorato per il futuro, per consegnare a chi sarebbe venuto dopo di lui una documentazione precisa dell’evoluzione di Trieste, in particolare di Città vecchia, delle rive e del rioni di San Vito e di San Giusto.
Questo patrimonio è stato solo in minima parte valorizzato in una mostra organizzata dal Comune nel lontano 2002, quando furono esposte a Palazzo Costanzi 225 fotografie realizzate tra il 1951 e il 1960. Tra esse la nascita del giardino pubblico di piazzale Rosmini, il ponte in cemento armato sul Canale, Città vecchia che continua a essere demolita, via Montecucco e via del Teatro Romano che cambiano volto. Tutte le fotografie provenivano dall’archivio della casa editrice Libreria Internazionale Italo Svevo di Sergio Zorzon, che all’epoca si era ripromessa di stampare cinque o sei volumi, ognuno dedicato alle fotografie scattate da Antonio Ciana, decennio per decennio. Ne è uscito in libreria solo uno, direttamente collegato alla mostra di Palazzo Costanzi: poi silenzio e il buio totale. Né libri, né mostre che si affiancassero all’iniziativa del 2002, preceduta nel lontano dicembre 1982 da un album ormai raro, stampato in poche copie dalla “Grafad” per la casa editrice di Sergio Zorzon. Ha per titolo ”Trieste scomparsa - demolizioni e rinnovamenti 1932-39”. Le pagine accolgono 32 foto di Antonio Ciana e altrettante didascalie. L’album ha anche valicato l’Oceano Atlantico ed è conservato anche alla Library of Congress dove è reperibile con il numero di controllo 84142444. Illustra l’abbattimento delle case che circondavano la chiesa di Santa Maria Maggiore, l’interramento della parte finale del canale del Ponte rosso in cui si specchiavano le colonne del pronao di Sant’Antonio Nuovo, il volto ormai dimenticato di piazza della Borsa e del Corso prima che intervenisse il “piccone risanatore”. Altre immagini mostrano l’inizio dello smantellamento della sinagoga che sorgeva in piazzetta delle Scuole israelitiche, nel cuore di quello che fu il ghetto di Città vecchia. Ma ritorniamo al 2002. L’allora direttore della fototeca comunale, Adriano Dugulin, aveva annunciato che “l’archivio del fotografo – funzionario della Ras, composto da duemila negativi su vetro e pellicola e da centinaia e centinaia di ‘vintage prints’ a breve scadenza sarebbe entrato a far parte del patrimonio dei Civici musei. Si affiancherà a quanto il Comune ha acquistato tempo addietro da “Giornalfoto”, la più importante agenzia cittadina del dopoguerra”. Invece anche in questo caso non se ne è fatto nulla benché Antonio Ciana avesse un significativo punto di forza rispetto a fotografi professionisti come Ugo Borsatti, Adriano De Rota, Mario Magajna che avevano lavorato a Trieste negli stessi anni del Novecento: non ha dovuto mai rispondere a esigenze di mercato o ai desideri dei clienti. Perciò è stato libero di scegliere i propri soggetti e le proprie inquadrature, nonché i tempi di realizzazione delle immagini. Come ha scritto Wendy d’Ercole nel saggio che accompagnava la mostra di Palazzo Costanzi del 2002, “Antonio Ciana ha lavorato con la meticolosità e la precisione dell’archeologo”.
Un giudizio condivisibile perché l’autore ha annotato diligentemente sulla busta in cui era conservato singolarmente ogni negativo, le circostanze in cui erano state effettuate le riprese e le caratteristiche del soggetto. In sintesi didascalie più che complete, affiancate talvolta da preziose note sulla data e l’ora precisa in cui l’otturatore della sua fotocamera si era aperto per consentire alla luce di disegnare sulla pellicola l’immagine in negativo. Queste informazioni, tra cui spiccano alcune piccole mappe del luogo dello “scatto”, col passare del tempo e con l’erosione delle memorie collettive, da preziose sono diventate indispensabili per ricostruire l’antico aspetto e la precisa topografia di una Città vecchia che non esiste più.
Ecco un esempio, collegato a quanto si legge sulla busta azzurrina numero 355 che contiene una lastra di formato 9 per 12 centimetri: ”Trieste: lungo il Canale, mercato dei cocomeri (angurie), fotografato la mattina del 15 agosto 1933. Si vedono i cocomeri allineati sulla riva, accanto ai trabaccoli romagnoli: dall’altra parte del canale, la via Rossini, angolo via Roma”. Sulla busta azzurrina la calligrafia di Antonio Ciana appare regolare, facilmente leggibile: l’autore ha usato una penna stilografica col pennino sottile. Non ci sono né sbavature di inchiostro, né ambiguità lessicali. Rari, anzi rarissimi sono i fotografi hanno agito come lui. Quasi nessuno ha lasciato sulle buste in cui ha conservato i negativi, note precise sul soggetto ritratto, sul momento e sul luogo dello “scatto”. Spesso anche le datazioni della maggioranza dei fotografi sono imprecise e si limitano a riferire l’anno o il mese in cui è avvenuta la ripresa. D
a un’attenta osservazione del lavoro di questo archivista-fotografo emerge anche con grande chiarezza che Antonio Ciana non è mai stato sfiorato dall’idea di essere un “artista” dell’obiettivo e nemmeno un fotografo d’architettura o un reporter da rotocalco o quotidiano. Affermarlo sarebbe per lo meno improprio: le sue immagini sono infatti molto lontane dal moderno reportage ma anche dalla compiutezza compositiva di un Arduino Pozzar o un Francesco Penco. Il merito delle fotografie di Ciana è quello di essere fresche, quasi naif, lontane da ogni suggestione che non sia quella di documentare meticolosamente, assieme alla didascalie che le accompagnano, un periodo che scompare, una città che sta cambiando fisionomia. L’antico che muore e il nuovo che avanza. —
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