Anna e il marito malato: «Ora è guarito, insieme ricominciamo a vivere»

La storia della goriziana in quarantena e del coniuge in terapia sub-intensiva: «Ti senti impotente e per tenerci in contatto i medici gli ricaricavano il telefonino»
La zona rossa realizzata all’ospedale San Giovanni di Dio di via Fatebenefratelli a Gorizia
La zona rossa realizzata all’ospedale San Giovanni di Dio di via Fatebenefratelli a Gorizia

GORIZIA «Ora ci riprendiamo la nostra vita». La signora Anna preferisce guardare avanti piuttosto che indietro. Soprattutto vuole lasciarsi alle spalle le ultime settimane: vuole dimenticare al più presto il ricovero del marito in terapia sub-intensiva all’ospedale Maggiore di Trieste, ma la sua testimonianza permette di capire cosa significhi per una famiglia affrontare il fantasma invisibile del coronavirus.

«Io, ammalato da un mese tra guarigioni illusorie e test sempre positivi»


Dopo due tamponi negativi al Covid-19, lunedì pomeriggio il marito è tornato finalmente a Gorizia. È debole e molto provato, ma è a casa. Anche se ha perso gran parte della muscolatura, è vivo ed è determinato a riprendersi al più presto. Quanto a lei, dopo un primo tampone definito dal personale sanitario borderline, Anna è poi risultata negativa ai successivi due test ed è stata certificata come non contagiosa.

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Paura, rabbia, angoscia, frustrazione, speranza, gioia: in queste settimane la signora Anna ha vissuto stati d’animo spesso contrastanti tra loro, sentimenti che si sono accavallati gli uni sugli altri in un’altalena senza fine. Ora però la luce in fondo al tunnel è arrivata. «In queste situazioni si mettono in moto dei meccanismi che non ti permettono di mantenere la lucidità e di vivere bene – racconta –. Mia figlia, anche se la cosa ormai è passata, ancora non si è completamente ripresa e sta aspettando di sapere cosa dirà l’ultimo tampone. Io, nei primi giorni, ero terrorizzata, non riuscivo nemmeno a concentrarmi sulle cose più semplici. Ora sono tranquilla e mi sono organizzata per tornare alla mia vita. Vado a fare la spesa portandomi dietro il mio gel e stando lontana da tutti. Sento molti che si lamentano perché devono stare chiusi in casa, so che non è facile, ma a queste persone dico che è molto peggio essere malati. Non auguro a nessuno di provare quel senso di impotenza che abbiamo provato noi».

Non è chiaro dove sia avvenuto il contagio, secondo la signora Anna è legato a una gita fatta a febbraio sul Lago di Garda, ma i sanitari tendono a escludere quest’ipotesi. Di certo però c’è che dopo 10 giorni dalla comparsa delle prime linee di febbre, alla fine il marito è stato ricoverato a Trieste in terapia sub-intensiva. «Gli hanno messo una sorta di casco e gli sparavano ossigeno a tutta forza. Doveva stare fermo ed era un po’ una tortura, ma i medici gli hanno spiegato che dopo quella terapia, rimaneva solo l’intubazione. Per questo si è dovuto fare forza e ha resistito».

A parte una piccola febbre e la perdita del gusto, Anna non ha avuto altri problemi. Se ha avuto il coronavirus, l’ha avuto in una forma blanda. La cosa più difficile per lei è stato però il senso di impotenza di fronte alla malattia del marito. «Non puoi andare in ospedale e hai la sensazione di avere abbandonato il tuo caro. Mio marito aveva con sé solo il telefonino, glielo avevo messo in tasca al momento del ricovero, ma con sé non aveva nemmeno il caricabatterie. I medici però si sono presi cura di lui in tutti i modi possibili. Oltre a curarlo, gli hanno anche trovato un cavetto per la ricarica del telefono cellulare e questo ci ha permesso di rimanere in contatto durante il suo ricovero. Aspettavo che chiamasse lui perché temevo di poterlo disturbare e poi perché parlare non gli era facile».

Per quanto le condizioni fossero comunque considerate gravi, il marito della signora Anna è sempre rimasto vigile e cosciente. «Non credo sia mai stato in pericolo di vita, ma ci sono stati molti casi di morti repentine e quindi non si poteva stare tranquilli. Non ho Facebook, così a casa guardavo la televisione, ma solo i programmi con medici ed esperti. Dopo un po’ dovevo però spegnere, soprattutto quando parlavano di epiloghi tragici».

Se da un lato la donna ha ricevuto tanta solidarietà da parte degli amici, dall’altro è rimasta scossa da quanti, dopo aver scoperto la positività del marito, anziché chiederle come stava, per prima cosa si preoccupavano di conoscere i dettagli pratici, di chi voleva sapere se avesse sanificato la casa e i luoghi dove era stata o se si fossero incontrati prima o dopo il contagio. «Chi non è contagiato ha paura di esserlo e chi è contagiato ha paura di ciò che potrebbe accadere. In parte riesco a capire questo atteggiamento, ma la paura immotivata di alcune persone mi ha dato lo stesso fastidio. Per fortuna però l’80% delle persone mi ha dato tanta forza, ho ricevuto una solidarietà che definirei “spaventosa”, nel senso buono del termine. Chi si ammala non può sentirsi in colpa perché si è ammalato: noi abbiamo sempre seguito fin dal primo momento le regole che ci sono state date dai sanitari».

Ora Anna, marito, figlia e nipote, con la coppia di amici che con loro è rimasta coinvolta in questa storia, sperano tutti di voltare pagina. «Abbiamo tutti bisogno di un po’ di fortuna», conclude la donna augurandosi che la battaglia contro il coronavirus possa concludersi il più in fretta possibile e che tutti, non solo loro, possano riprendersi la propria vita al più presto. –

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