Andreoli: «Inevitabile insegnare la parità ma a tre anni è presto»

Lo psichiatra e scrittore interviene sul “Gioco del rispetto”: «Non mi scandalizza il polverone. È un tema molto complesso»
Di Giovanni Tomasin
20/06/2013 Milano, quattordicesima edizione di " La Milanesiana " che ha per tema Il segreto. Nella foto lo psichiatra Vittorino Andreoli.
20/06/2013 Milano, quattordicesima edizione di " La Milanesiana " che ha per tema Il segreto. Nella foto lo psichiatra Vittorino Andreoli.

«Educare significa insegnare a vivere, e si vive nel presente. Penso sia giusto e inevitabile insegnare l’uguaglianza dei diritti, anche se forse l’adolescenza è il momento migliore per farlo». Nel corso della sua lunga carriera Vittorino Andreoli si è occupato spesso di temi del genere. Lo psichiatra e scrittore (il suo ultimo libro è “Ma siamo matti”, Rizzoli 2015) riflette sulle polemiche scoppiate a Trieste e nel resto d’Italia attorno al “Gioco del rispetto”.

Andreoli, cosa pensa del polverone che si è sollevato?

Trovo sia molto naturale che si discuta su questi temi. Non mi scandalizzo, anzi, direi che il dibattito s’impone su una questione tanto complessa.

Perché?

Perché il problema si articola su due versanti. Nell’essere umano, e quindi nei bambini, ci sono una dimensione biologica e una sociale. Quella biologica si lega alle caratteristiche del nostro dna, e la differenza di genere è legata a quella dimensione. Nel senso che è vero che maschi e femmine sono diversi, basta pensare all’allattamento o alla gravidanza. C’è quindi un’educazione che possiamo definire educazione delle caratteristiche biologiche ineliminabili.

L’altro versante qual è?

È quello della situazione sociale, la cui dimensione storica dipende dalla struttura sociale del momento. La nostra società sta cambiando, pensiamo alle soldatesse, e ciò va considerato quando si pensa il sistema educativo. Educare significa insegnare a vivere il tempo presente, si vive nella storia e quindi in questa società che per una questione di diritti ha diminuito le disparità tra i due sessi.

C’è un fattore preponderante tra i due?

Bisogna tener conto di entrambi, sia dei fattori sociali che di quelli biologici. Poi dipende dall’età di chi riceve l’insegnamento.

Il progetto si rivolge ai bambini dai tre ai sei anni.

Forse nella fascia d’età considerata dovremmo ricordare che a dominare è la biologia, l’azione della società non è ancora molto sentita, come accade invece nel caso degli adolescenti. Per questi ultimi la biologia è molto meno rilevante dell’impatto sociale. Per i bambini dai tre ai sei anni si potrebbe rimanere più aderenti alla biologia. In ogni caso è cosa buona che a Trieste se ne discuta, magari senza fare drammi, anche perché dobbiamo tenere a mente che gli adulti di oggi non sono più quelli di un tempo: possono esserci donne che non partoriscono e non allattano. Inoltre c’è un altro fattore da tenere in conto.

Ovvero?

Oggigiorno anche i giochi per bambini non sono distinti in modo marcato. Pensiamo ad esempio ai videogiochi o ai programmi televisivi: non ci sono più prodotti differenziati per maschi e femmine. I cartoni animati di oggi propongono modelli di bambine, anche piccole, estremamente forti e ben distanti dalle figure remissive della tradizione. Sono finiti i tempi delle bambole e dei soldatini.

Nel complesso, quindi, secondo lei è naturale insegnare la parità, semmai si dovrebbe riflettere sulle età in cui collocare questo insegnamento.

Sì, penso che i luminari del campo come Erik Erikson e Bruno Bettelheim concorderebbero con me su questo punto: rispettare l’imperativo biologico durante la fase iniziale dell’infanzia e pensare a un'educazione improntata all’uguaglianza quando è molto maggiore il peso della società.

Lei ha avuto esperienze particolari in questo campo?

Sono stato consulente del capo di Stato maggiore dell'esercito per aiutare l’inserimento delle donne nelle forze armate. Ovviamente hanno una determinazione pari a quella degli uomini. Un esempio: i carri armati hanno un equipaggio di cinque persone. Inizialmente si era pensato a tre uomini e due donne con compiti più "leggeri" come le comunicazioni. Queste però si sono imposte per gli equipaggi interamente femminili e hanno dimostrato di poter affrontare senza problemi quel genere di sfida. Insomma, sono perfettamente capaci di cambiare i cingoli di un carro armato.

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