Andrej, il vescovo dei 400mila Serbi sceso dal monte Athos
Come si riaccende, al passaggio di un vescovo, il fervore di una comunità come quella serba, tutta incenso, bordoni e candele! E come si aggrappa alla sua affascinante liturgia bizantina e alle sue barbute gerarchie, inevitabili punti fermi in una storia specialmente tempestosa di diaspore e guerre anche recenti! Della diaspora e della guerra, in qualche modo, è figlio anche questo nuovo pastore della diocesi ortodossa con sede a Vienna, che racchiude i circa 400mila Serbi d'Italia (Trieste inclusa), Austria, Svizzera e Malta: l'episcopo Andrej ‚ilerdži„ è nato in Germania nel 1961 da padre di Kraljevo fuggito dalla Jugoslavia negli stessi giorni in cui le truppe di Tito occupavano Trieste, e da madre tedesca convertitasi all'ortodossia per amore.
In questa radice, che più europea e più ecumenica non si può, sta scritto fin dal principio il destino di un uomo innamorato del monachesimo che gli stessi monaci - e non monaci qualunque, quelli del Monte Athos - hanno invece indirizzato verso la teologia e poi la missione pastorale. La sua è stata la prima visita a Trieste dopo quella che lui chiama "intronizzazione" sul seggio vescovile, il 20 luglio di quest'anno nella capitale austriaca. Tonaca nera, barba e crocchia di capelli sulla nuca, lo abbiamo incontrato in una delle vecchie sale della comunità, accanto alla chiesa di via San Spiridione, in una gran giornata di sole e bora leggera.
Benvenuto, vescovo Andrej.
Forse bisognerebbe dire bentornato... Mio padre portava spesso la famiglia a Trieste d'estate. A noi diceva per le vacanze, ma per lui era qualcosa di più. Era avvicinarsi alla patria perduta, e anche respirare l'aria della libertà riconquistata. Trieste era stato il suo primo approdo dopo l'emigrazione, nel '45. E io ho amato subito questa città. Era il mare, la luce... Se non fossi diventato vescovo, chissà, avrei fatto un altro lavoro e avrei amato vivere qui.
Come è stato il suo ritorno, allora.
La comunità mi si è stretta attorno. È stato emozionante. E anche le autorità civili mi hanno dato un bel benvenuto. Quando ho detto alla signora prefetto che la mia vita era nelle mani di Dio, lei ha risposto “anche la mia”, e questo mi è piaciuto molto.
Racconti della diaspora di suo padre.
Dopo Trieste, gli Alleati lo spedirono a Forlì e poi a Eboli in Campania, dove rimase fino al '47. Lui voleva andare in Australia, ma loro lo spedirono in Germania, dove lavorò per due anni come tagliaboschi. Era tutta legna che andava in Inghilterra... Divenne uomo libero nel '49, quando la Germania uscì dalla tutela anglo-americana e si diede una sua costituzione, e qualche anno dopo si sposò. Io sono il terzo dei suoi figli.
Come è cominciato il suo... viaggio?
Con un soggiorno di due anni sul Monte Athos, nel monastero di Hilandar. Avevo diciott'anni. Ero affascinato da quella comunità di uomini che venivano da mezza Europa, bulgari, siriaci, russi, romeni, ma anche francesi, tedeschi, italiani... uomini che, in quell'assenza totale di donne, erano dediti a un'unica adorazione, quella della Madre di Dio. Lì mi sono avvicinato al femminile, nella sua dimensione del sacrificio e dell'amore.
C'è infatti Lei nel medaglione che porta appeso al collo.
I vescovi ortodossi si riconoscono per questo pendaglio. Essi portano la diocesi così come la Madonna porta in braccio il Bambino, il miracolo del creatore del mondo.
Lei era sull'Athos come diacono...
Sì, ma alla fine sono stati i monaci a convincermi che la mia strada era nel mondo. L'avevano capito anche dalla mia genealogia. Io obbedii, ma ricordo che quando il portone di Hilandar si chiuse dietro di me, piansi disperatamente.
E allora?
Andai a Belgrado a studiare teologia, e lì ho conosciuto padre Raško Radovi„, l'attuale parroco della chiesa serba di Trieste, una delle più importanti d'Europa. Era il 1980 e la religione era ancora mal tollerata in Jugoslavia. Ma lì fui accolto come in una famiglia, e questo mi caricò di entusiasmo. Il decano valorizzò subito la mia dimestichezza con i cattolici e mi spedì spesso in missione a Lubiana e Zagabria. Credo siano stati gli anni più felici della mia vita.
Lei è stato anche in Kosovo, dicono.
Sì, due anni come monaco a De›ani, e poi, dopo una parentesi a Salonicco, un altro periodo come professore nel seminario ecclesiale di Prizren. Erano anni caldi, la tensione fra Serbi e Albanesi aumentava, ma il patriarca mi volle lì proprio perché, diceva di me, sapevo ascoltare tutti.
Poi cominciò la guerra.
E io divenni segretario generale ecumenico nel patriarcato. Ma poi sono tornato all'insegnamento, con una cattedra di teologia all'università di Monaco. Dopo questa esperienza, nel 2011, il patriarca mi ha chiamato come vescovo ausiliario. E siamo alla storia di oggi.
Come vede i nostri tempi?
Non c'è mai stato tanto dialogo fra cristiani, e il dialogo è una cosa preziosa per rimarginare le vecchie ferite. È assurdo credere nello stesso Dio e non essere uniti, pur nella diversità. Se i cristiani resteranno divisi dovranno renderne conto al Signore.
Sono passati cent'anni dall'inizio della prima guerra mondiale.
Ah, molte ferite di oggi si sono aperte allora. Riflettere su quella catastrofe è essenziale per l'Europa. Nel mio discorso di insediamento a Vienna l'ho detto ben due volte.
Ci lascia con quale augurio, signor vescovo?
Di progredire nella fraternità. Le auguro ogni bene.
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