Amori, sfide ricordi di Eugenio Scalfari
di Alessandro Corbi
Si chiama . “L’amore, la sfida, il destino” (Einaudi, 134 pagine, 17,50 euro) l’ultimo libro di Eugenio Scalfari, fondatore de “L’Espresso” e della “Repubblica. Un lavoro che porta a conclusione un viaggio all’interno di se stesso iniziato, letterariamente, nel 1994 con “Incontro con Io” e proseguito con “Alla ricerca della morale perduta”, “L’uomo che non credeva in Dio”, “Per l’alto mare aperto” e, infine, con “Scuote l’animo mio Eros”.
A 90 anni, scrive Scalfari, «per me ogni giorno è un anno, faccio molte cose assieme e i desideri sono aumentati di numero e di intensità». È il viaggio che continua, iniziato molti anni prima, nell’età dell’adolescenza, dei primi amori e delle prime letture, dei primi film e delle prime amicizie. Come quella, “fortunata”, con il compagno di banco Italo Calvino, che una sera gli dice: «Abbiamo incontrato Atena» e Scalfari risponde: «Iniziamo un viaggio dentro noi stessi per capire cosa è l’Io e dove sta acquattato».
Il viaggio è dunque la vita stessa, «una partita alla ricerca di un senso che spiegasse a me il mio vissuto». Al centro c’è la partita della vita, al cui tavolo siedono i giocatori, “gli istinti non primari”, fondamentali nel decrittare il proprio agire e pensare. Molti altri sono i personaggi che affollano le pagine del libro. Personaggi letterari e mitologici, leggende, figure retoriche e uomini in carne e ossa, i suoi grandi amori, gli amici e i parenti le cui gesta affiorano dalla sua memoria come un fiume carsico ad illuminare e spiegare il senso della sua partita. «In ogni gioco – dice – c’è una posta da vincere o da perdere e ciascuno gioca portando al tavolo le sue virtù e i suoi difetti, la sua forza e la sua debolezza, le sue speranze e le sue disperazioni».
Qual è il gioco di Scalfari e quali le differenze rispetto ai libri precedenti?
«Concludo la mia ricerca sugli istinti mescolando brani di autobiografia a riflessioni filosofiche, seguendo un format diverso rispetto agli altri libri. La voce narrante è chiaramente la mia, ma il libro è impiantato su una serie di personaggi, alcuni reali e altri puramente di fantasia, che però agiscono e hanno un ruolo, anche se apparentemente non c’entrano nulla l’uno con l’altro. In realtà hanno tutti a che fare con i vari tipi di istinto di sopravvivenza, che è quello fondamentale che ci anima. Nei libri precedenti non avevo però creato il tavolo di gioco».
Chi siede a questo tavolo?
«Innanzitutto c’è l’Io, che è il padrone di casa. Ciascuno di noi gioca questa partita così per come è fatto, con le sue paure e le forze, le sue debolezze e i suoi vizi. Naturalmente l’Io si modifica nel corso del tempo, ma se siamo “consapevoli”, non schiacciati sul presente, possiamo giocare e vedere come giocavamo prima. Gli altri invitati al tavolo invece quasi non cambiano. C’è Eros, il signore dei desideri e dell’amore, l’amore in qualunque direzione - di un altro corpo, di un'altra anima, desiderio del potere e desiderio di Dio - che dà le carte e infonde la forza vitale. E c’è Narciso, che è l’amore per sè ed è molto vicino a Eros. L’amore verso noi stessi è fondamentale - noi ci amiamo perché, a differenza degli altri, viviamo con noi stessi 24 ore su 24 – ed è positivo perché ci fa amare la vita a meno che non diventi egolatria».
Un ruolo importante nella partita è riservato al caso, o destino, e ad Edipo.
«Lo chiamiamo il destino, il caso, il Fato. In realtà sono la stessa cosa. Il destino è di quelli che credono di essere così importanti che pensano vi sia una mente superiore che sa già cosa succederà. Il caso invece obbedisce alla legge della probabilità, ma non sempre. È la vita. Poi c’è Edipo, che rappresenta la trasgressione, e che se sublimato definisce le emozioni e gli affetti di tutti noi. Nella mia personale partita non è entrato molto. Ma è talmente importante che anche se non c’è, disegna il tratto del carattere che sarebbe diverso se non ci fosse. Nel mio caso come ha giocato? La componente principale che ha animato tutti i miei amori è stata la paternalità. Io ho sempre avuto tendenza a proteggere oltre che ad amare. Naturalmente c’è anche una dose di egoismo in tutto questo perche proteggere vuol dire anche controllare, possedere. In realtà, noi siamo un grumo di contraddizioni non risolvibili. Le contraddizioni sono la nostra ricchezza, ci affaticano ma ci danno forza».
Tra i personaggi della partita della vita ne mette uno che entra in scena solo alla fine.
«Sì, questi sono i giocatori seduti al tavolo. Ma c’è un altro grande protagonista, una specie di angelo custode, che non partecipa al gioco, ma lo segue attentamente, sta in piedi dietro di noi. È la morte. Noi adottiamo molti sistemi per allontanarla, sapendo tuttavia che è una battaglia persa. Omero, Dante, Shakespeare, l’hanno allontanata per un bel pezzo lasciando una traccia. Una traccia che per alcuni può durare tre giorni, tre settimane, qualche anno, però se hai scritto l’Otello…».
Si parla molto del senso di colpa.
«Ognuno di noi sente la necessità di capire chi è, che ha fatto. Perché ho questa colpa? Da dove viene? Nasce da un desiderio travolgente, ferisce te e gli altri, è una cosa reale, concreta. È una forza che ti spinge al viaggio interno, ti fa male ma ti fa crescere».
Alla fine della ricerca qual è il senso che se ne trae?
«Alla fine il senso è semplicemente la “posta” della partita, la vita e il suo significato, il viaggio, è un senso che smarriamo e ritroviamo continuamente attraverso dei segmenti di senso. Segmenti che a volte si duplicano e a volte si dipanano…”l’Ulisse di Dante ricorda ai suoi compagni dell’ultimo viaggio senza ritorno: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza…Questa è la motivazione e chi a questo riesce ad arrivare ha vinto la partita della sua vita».
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