Alta tensione a Sarajevo ferita dai roghi

La città appare divisa ma la protesta non vuole mollare. Un passo falso e la situazione rischia di precipitare nel caos

SARAJEVO. Il giorno dopo, a Sarajevo, è quello in cui la città si lecca le ferite, fa la conta dei danni e ripulisce le strade. Ed è la giornata della calma sospesa, con il traffico che scorre quasi normale, gente a passeggio e pochi a manifestare. Calma dopo la tempesta furiosa degli scontri di piazza di venerdì, dei palazzi del potere devastati da centinaia di ragazzini arrabbiati. Inutile speculare se sia solo una pausa della rivolta o se la fiammata della collera si sia già spenta. Bisogna aspettare. Aspettare e passeggiare nell’epicentro delle proteste di venerdì, nel parco tra la Alipasina dzamija e il palazzo della Presidenza della Bosnia-Erzegovina, assaltato e parzialmente incendiato assieme agli archivi di Stato. A un passo, la sede del Cantone di Sarajevo, rogo spento solo in mattinata, da dove ieri pomeriggio crollavano i soffitti impregnati dall’acqua gettata dai pompieri e le finestre sbattevano al vento. Passeggiare e chiacchierare con i sarajevesi arrivati lì, a un passo dalla Miljacka, a guardare di persona cosa gli “huligani” hanno distrutto. Ed è una cittadinanza che appare divisa, quella che decide di parlare. «Dio ci protegga, ho visto di tutto ma qui sono passati i vandali e ora toccherà a noi pagare tutto, dopo che ci hanno depredato di ogni nostro avere», borbotta Cazim Vrabac, 80enne pensionato, mentre il vento che scende dalle montagne sferzando il catino sarajevese non riesce ancora a spazzare via l’odor di bruciato. All’anziano fa eco Mevla, 45 anni, infastidita mentre osserva i danni. I colpevoli sono «ragazzini senza lavoro» e senza speranze, «ragazzini nati al tempo della guerra, ma questo non li giustifica. Giusto protestare, ma senza distruggere», dice con voce triste, mentre dietro a lei tanti passanti camminano con sguardo basso, sussurrando «strasno, sramota», orribile, che vergogna, non si sa se riferito alla distruzione o ai politici al potere. Non la vede così Merima, 22 anni. E non è la sola. «Senza violenza non avremmo attirato alcuna attenzione», sbotta, ricordando poi tutte le concrete e condivisibili ragioni della protesta contro corruzione, disoccupazione, politici inetti, economia al palo. Non distante, tra panchine di cemento divelte, un ragazzo alza un cartello con su scritto «eliminiamo i Cantoni», «un solo governo per la Federazione», e la gente attorno lo incita con il consueto «ladri, ladri». Erano pochi però, nel pomeriggio, gli arrabbiati di Sarajevo. Di più quelli che fotografavano con i telefonini le rovine. Ma, in serata, i numeri sono un po’ cresciuti. «Liberate gli arrestati», «uscite fuori, dimissioni», «lo tsunami sta arrivando», «questo è solo l’inizio», l’urlo di almeno trecento cittadini, pacifici ma ancora in collera, diretto al palazzo della Presidenza. Devastato, vuoto. Nell’aria, una calma apparente. Come dimostra la reazione generale, vibrante e di stomaco, quando una donna proclama che «quel bel palazzo» austroungarico «ha resistito a tre guerre e guardate ora come è ridotto». «Chi ti dà lo stipendio, mars», sciò, la replica stizzita della folla. Verso le 17, il forte richiamo di un’altra donna, una delle dimostranti. «I poliziotti hanno preso uno dei nostri ragazzi», grida vicino alla moschea. In pochi secondi, i manifestanti, memori della brutalità della polizia dimostrata in varie occasioni venerdì, si precipitano sul posto, pronti a venire alle mani con gli agenti armati di scudi e manganelli. Poi, la riconsegna del fermato, la folla che si ritira. Tensione palpabile. Potrebbe bastare un piccolo passo falso, anche un solo arresto nel momento sbagliato, a far ripiombare Sarajevo nel caos, mentre le proteste – la promessa di ieri sera – andranno avanti a oltranza.

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