Alina, chiesto il processo per 9 poliziotti

Depositate dal pm De Bortoli le istanze di rinvio a giudizio. Accolta l’archiviazione dell’accusa di omicidio colposo per Baffi
Alina Bonar Diaciuk
Alina Bonar Diaciuk

La Procura chiede al Tribunale di processare nove poliziotti finiti sotto inchiesta dopo il caso Alina. A cominciare dall’allora responsabile dell’Ufficio immigrazione della Questura Carlo Baffi, verso il quale resta l’accusa di sequestro di persona mentre viene cancellata quella di omicidio colposo. Ipotesi di reato, quest’ultima, configurabile tecnicamente come “morte come conseguenza di altro delitto” (ovvero la “violata consegna” dell’ordine della vigilanza venuto da Baffi), confermata invece per i tre “carcerieri”, gli assistenti capo Thomas Battorti e Roberto Savron, di 37 e 42 anni, e l’agente scelto Ivan Tikulin, di 40 anni.

Come soltanto il caso sa fare, alla vigilia del terzo anniversario (che ricorre proprio oggi) della morte di Alina Bonar Diaciuk - l’ucraina di 32 anni suicida in una cella del Commissariato di Opicina dove era stata rinchiusa in attesa di essere espulsa una volta passato il week-end - a Foro Ulpiano è iniziata a circolare la notizia che il pm Massimo De Bortoli ha provveduto nei giorni scorsi a depositare, alla cancelleria della sezione Gip-Gup, la richiesta di rinvio a giudizio per nove indagati, ai quali a gennaio aveva già inviato l’avviso di conclusione delle indagini. La data dell’udienza preliminare non è stata ancora fissata. Il procedimento risulta assegnato al momento al giudice Giorgio Nicoli, che attende nei prossimi giorni conferma o meno del proprio servizio in seno alla sezione.

S’impicca nel commissariato di Opicina
Lasorte Trieste 16/04/12 - Opicina, Commissariato di Polizia

Contestualmente, il pm ha pure consegnato agli uffici dei giudici per le indagini e le udienze preliminari un secondo incartamento, contenente una serie di istanze di archiviazione di imputazioni parallele a carico di alcuni di questi nove indagati. Istanze che alleggeriscono determinate posizioni e che il gip assegnatario del secondo incartamento, il giudice Luigi Dainotti, ha ritenuto di poter accogliere firmando un decreto di archiviazione depositato martedì. La più importante delle posizioni archiviate riguarda, come detto, Baffi, per il quale il pm ha chiesto da un lato, nel secondo incartamento, il non luogo a procedere per l’ipotesi di omicidio colposo e dall’altro, nel primo incartamento, il rinvio a giudizio per sequestro di persona in concorso. Baffi è difeso dall’avvocato Paolo Pacileo. La stessa contestazione investe altri cinque colleghi: il vice dell’epoca Vincenzo Panasiti, di 57 anni, assistito dall’avvocato Giorgio Borean, Alberto Strambaci, di 47, rappresentato dall’avvocato Davor Blaskovic, Cristiano Resmini, Fabrizio Maniago e Alessandro De Antoni, di 44, 45 e 48 anni, difesi dall’avvocato Alberto Bosdachin. L’accusa di concorso in sequestro di persona, per questi sei indagati, è stata formulata a chiusura di una sorta di indagine-bis nata dal caso Alina, che ha fatto finire sotto la lente del pm De Bortoli 175 casi di presunta detenzione illegale di stranieri destinati al reimpatrio che passavano per la cella del Commissariato di Opicina, nonostante talvolta non fossero nemmeno stati oggetto di un apposito provvedimento. Secondo il magistrato inquirente, insomma, all’epoca della “gestione” Baffi i soggiorni forzati dietro le sbarre di Opicina da eccezione parevano essere divenuti prassi. Uomini e donne come pacchi postali di passaggio per un centro di smistamento.

Alina, chiesti 500mila euro di risarcimento al ministero
Il commissariato di Opicina

L’ipotesi di reato di “morte come conseguenza di altro delitto”, che rimanda nel Codice penale all’omicidio colposo ed è qui direttamente collegata al singolo caso Alina, invece, investe le tre guardie del Commissariato di Opicina: Tikulin, difeso dall’avvocato Gianfranco Grisonich, era incaricato della vigilanza delle sale di controllo, il compito di Battorti e Savron, tutelati rispettivamente dagli avvocati Francesco Murgia di Treviso e Giorgio Carta di Roma, era proprio la sorveglianza di Alina. Terrorizzata dalla prospettiva di tornare in Ucraina dove era stata condannata per omicidio e di subire eventuali ritorsioni da parte di organizzazioni criminali alle quali era sfuggita, la giovane aveva deciso di farla finita in quella cella impiccandosi con una cordicella sfilata da una felpa. Per 40 interminabili minuti era rimasta agonizzante, davanti alle telecamere di sorveglianza, le cui immagini sono state inserite poi tra gli atti dell’inchiesta. Ma nessuno, quelle telecamere, in quei 40 minuti, le aveva evidentemente guardate bene. A febbraio l’avvocato Sergio Mameli ha chiesto mezzo milione «a totale ristoro dei danni» al Ministero dell’interno: assiste i fratelli di Alina e la loro madre. Quest’ultima è rientrata da poco in patria: la salute non le permetteva di guadagnarsi da vivere in Italia, tanto che era finita in un dormitorio della Caritas di Milano. L’altra figlia che a Milano stava con lei, infatti, è detenuta ora a Bollate per scontare una pena per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina legata proprio al caso della sorella.

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