Alina, chiesti 500mila euro di risarcimento al ministero
Cinquecentomila euro. È questo il prezzo della vita di Alina Bonar Dachuk, la donna ucraina che nel mese di aprile del 2012 si è suicidata nel Commissariato di Opicina, terrorizzata di dover tornare nel suo Paese. Questa cifra «a totale ristoro dei danni» è stata chiesta dall’avvocato Sergio Mameli al ministro degli Interni che legalmente è il datore di lavoro dei poliziotti e del funzionario coinvolti.
Il legale assiste la madre, la sorella e il fratello della donna morta. La richiesta di risarcimento inviata anche all’avvocatura distrettuale dello Stato fa esplicito riferimento all’avviso di conclusione delle indagini preliminari del pm Massimo De Bortoli che è stato notificato nei giorni scorsi all’ex responsabile dell’ufficio stranieri Carlo Baffi e ai tre poliziotti in servizio quel giorno al commissariato di Opicina.
Per Baffi l’ipotesi di reato è di sequestro di persona aggravato, la contestazione a carico dei tre agenti è, segnatamente, di “violata consegna e morte come conseguenza di altro reato”. I nomi sono quelli dei poliziotti Thomas Battorti, 37 anni, assistente capo; Roberto Savron, 42 anni, assistente capo, e Ivan Tikulin, 40 anni, agente scelto: erano gli agenti di stanza allora al Commissariato di Opicina che erano finiti sotto inchiesta subito dopo il suicidio di Alina poiché risultavano in servizio nel momento in cui la giovane ucraina (chiusa in una cella di sicurezza del “loro” commissariato in attesa che nel week-end fossero perfezionate le pratiche per la sua espulsione, e terrorizzata dalla prospettiva di tornare in patria dove era stata condannata per omicidio e di subire eventuali ritorsioni da parte di organizzazioni criminali) aveva deciso di farla finita impiccandosi con una cordicella sfilata da una felpa.
Alina Bonar Diaciuk era rimasta agonizzante per 40 minuti, e intanto le telecamere di sorveglianza (le cui immagini sono state inserite tra gli atti dell'inchiesta) avevano filmato la sua agghiacciante fine. Ma nessuno se n'era accorto in tempo. È stata lasciata nella cella, a morire. Nessuno insomma si è accorto, nessuno è intervenuto se non quando è scattato l'allarme. Solo dopo i tre poliziotti, assieme ai colleghi dell'Ufficio immigrazione che erano arrivati per prelevare la “detenuta” hanno tentato di rianimare la giovane donna ucraina. Ma non c'è stato nulla da fare.
Questa presunta tragica disattenzione e il fatto che Alina fosse stata portata nella stanza di sicurezza del commissariato in violazione alle leggi, per il legale della famiglia della donna ucraina rappresenta un danno subito dai familiari. Un danno che, scrive Mameli, può essere risarcito in forma forfettaria con la cifra di 500mila euro.
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