Al Silos di Trieste tornano le baracche dei disperati. E dal fango spuntano giochi e pannolini
TRIESTE Kimal, 34 anni, afghano, dice di aver visto anche bambini qui al Silos. «Erano dall’altra parte qualche giorno fa, assieme alla mamma e al papà». Dall’altra parte è l’ala che dà verso il Porto vecchio, quella più defilata.
Kimal ha visto bene. Per terra, tra spazzatura ed escrementi, si scorge un paio di scarpette da bimbo. Più in là alcuni giocattoli e un pannolino. Tracce evidenti del passaggio di piccoli profughi, in fuga insieme alle loro famiglie.
C’è silenzio nel grande capannone abbandonato del Silos, alle spalle della Stazione centrale. Il silenzio della città fantasma è l’altro volto di Trieste. Quello che la città non vede. O preferisce non vedere. Quello che politica e istituzioni sembrano aver accettato come qualcosa di inesorabile.
Forse il Silos, in fondo, fa comodo? Nell’estate del 2018 aveva fatto scandalo la presenza dei profughi che bivaccavano sulle Rive, a un passo dal Molo Audace e da piazza Unità. Ma quando poi i migranti si spostarono nuovamente al Silos, scomparendo dal radar, la questione finì per passare in secondo piano. Occhio non vede, cuore non duole.
Ma i migranti sono tornati. O, forse, non se ne sono mai andati. Al Silos, oggi, è un continuo via vai di pachistani, afghani, iracheni, siriani. Un’umanità che fugge da povertà e guerra e che trova riparo tra i grandi piloni, dopo mesi di viaggio lungo la rotta balcanica.
Dormono in capanne di fortuna, costruite con cartoni, lamiere e inferriate recuperate da qualche cantiere vicino. A pochi passi come detto c’è la Stazione ferroviaria, con i suoi turisti, i suoi pendolari e gente d’affari. All’altro lato il Porto vecchio, la scommessa della città, fresca di Esof.
Quanti saranno i migranti al Silos? Forse una trentina, forse di più. La maggior parte è a Trieste di passaggio. «Io sono arrivato da pochi giorni, dormo là», spiega ancora Kimal mostrando il suo giaciglio. Un sacco a pelo e poco più. «Parto per Milano».
I migranti che trovano rifugio nel capannone sfuggono ai controlli delle forze dell’ordine sui confini. Dalle testimonianze si sa che raggiungono il Silos a piccoli gruppetti, incamminandosi lungo la pista ciclabile che dal Carso collega a San Giacomo. Sfuggono ai controlli delle forze dell’ordine e pure ai protocolli sanitari, vale a dire la quarantena anti-Covid. «Siamo al Silos perché non abbiamo un posto dove dormire – continua il trentaquattrenne afgano –, l’Ics ci ha detto che al momento non c’è spazio. Di giorno mangiamo alla Caritas ».
Una realtà ben nota al direttore dell’ente diocesano, don Alessandro Amodeo. «Non sappiamo da dove proviene chi viene a mangiare da noi nella struttura di via dell’Istria», rileva il direttore. «Per quanto riguarda invece il discorso sanitario, presumo che le associazioni che operano in piazza Libertà provvedano a contattare le forze dell’ordine quando prestano assistenza ai migranti del Silos, in modo tale che queste persone vengano inserite nel circuito sanitario. Troverei strano il volerle aiutare senza farle passare per questi canali, che sono canali pensati per proteggere sia i migranti sia la cittadinanza».
Ma chi vive al Silos sta in una discarica. E non c’è acqua, non ci sono servizi igienici. Dormono tutti per terra, tra capanne bruciate, pentole putride. Polvere, fango ed escrementi. Adulti e giovani mamme con i loro bimbi. —
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo