Al Cara italiani sfamati dai profughi
GRADISCA. Senza stipendi da sei mesi. Le bollette da pagare, i figli da vestire e mandare a scuola. I mutui in banca, il bollo auto, le spese di ogni giorno. Una quotidianità da mandare avanti che diventa sempre più angosciante. Con una certezza cruda, racchiusa in una frase che ben fotografa la situazione: «Credeteci o no, ormai facciamo pena anche agli immigrati. Molti di noi stanno come loro, se non peggio. A volte si sono offerti di aiutarci».
Solidarietà alla rovescia, epitaffio di un sistema, quello dell'accoglienza in salsa italica, che sta collassando. Sicuramente a Gradisca. L’aneddoto di Giorgia, una dipendente della Cooperativa, è tristemente illuminante: «Un richiedente asilo, consapevole delle nostre difficoltà, ha voluto pagare le merendine che mio figlio si porta a scuola. E voleva darmi anche i soldi per un paio di pantaloni. “Mi ha detto: prenditili tu, stai peggio di me in questo momento”...».
Ma c’è chi è talmente disperato che avrebbe voluto portarsi a casa i pasti del Cara. Invece per regolamento i pasti non consumati vanno buttati «ma magari prendiamo un po’ di frutta o acqua rischiando di venire ripresi». Hanno un po’ di comprensibile pudore ma poi confessano: «Spesso quei ragazzi ci offrono del loro cibo, pasta o altro...» E per una questione di dignità non vanno oltre.
Si sfogano i dipendenti del Cara isontino. Sono una sessantina in tutto, lavorano per la Connecting People e coop collegate: operatori per l'assistenza alla persona, magazzinieri, mediatori culturali, linguistici e legali. Da ottobre non percepiscono il proprio salario. E a metà aprile vedranno scadere anche la copertura della cassa integrazione.
Poi ci sono i liberi professionisti a partita Iva, medici e infermieri, molti dei quali hanno lasciato l'incarico: alcuni di loro non hanno viste pagate le proprie fatture per oltre un anno. «Siamo allo stremo - fanno sapere alcuni dei dipendenti con cui Il Piccolo ha parlato, e per tutelare i quali utilizzerà nomi di fantasia -. Siamo stanchi di questo continuo palleggio di responsabilità fra azienda e Prefettura: come tutti abbiamo diritto a una vita dignitosa». Le persone che abbiamo incontrato hanno lo sguardo stanco, perso nel vuoto. Non si fanno più illusioni. Venerdì si ritroveranno in assemblea, probabilmente per indire un nuovo sciopero. Ma là dentro, dietro il muro dell'ex Polonio, l'aria è ormai pesantissima.
«Non lavoriamo su macchinari, ma con le persone, e lo facciamo per conto di uno Stato completamente assente e che invece dovrebbe essere il nostro garante – spiega Claudia-. Cerchiamo di essere il più professionali possibile, ma psicologicamente siamo molto provati». Un lavoro logorante, sempre in prima linea per neanche mille euro al mese. Come mantenere la lucidità sapendo di non poter arrivare a fine mese?
A due operatori, ad esempio, è stato riscontrato un esaurimento nervoso. Un altro, di origine straniera, è caduto in depressione e nei mesi scorsi ha tentato il suicidio. “Io sono stato sfrattato, presto non saprò dove andare a dormire», racconta invece Sandro. C'è chi non ha neppure più i soldi per la benzina («Veniamo a lavorare in quattro da Gorizia per contenere i costi») e chi rischia il sequestro del mezzo perché non può permettersi la rata dell'assicuazione.
Consuelo non ce la fa più: «Io vivo da sola, ho un figlio e per mangiare sono costretta a chiedere i soldi a mio padre che è molto anziano. Oltre agli stipendi ci stanno portando via la dignità. Ma se c’è da fare una colletta per aiutare una collega disabile nessuno si tira indietro».
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