«Aiuti all’Africa, o i giovani punteranno all’Europa»
TRIESTE. C’è il pluridecennale lavoro portato avanti per aiutare le persone nel loro Paese e fare in modo che non debbano vedere quello dell’emigrazione come l’unico futuro possibile. E c’è la consapevolezza di operare appunto in un Paese, il Kenya, scosso non solo da povertà ed enormi squilibri sociali ma anche dall’ombra del terrorismo islamico. Paure e tensioni si respirano sempre, e forse di più, ora che l’integralismo fa breccia sui giovani e sulle fasce povere della popolazione, annidandosi in moschee e luoghi di aggregazione. Un versante quest’ultimo in cui però c’è un briciolo di speranza cui aggrapparsi. «La speranza qui è un nuovo coraggio e responsabilità, una presa di coscienza che inizia a prendere forma tra la gente, tra chi ha cominciato a segnalare fatti e situazioni pericolose».
Così racconta don Piero Primieri, dal 1970 in Africa. Il sacerdote, settantacinquenne originario di Trieste, vive nella parrocchia di Iriamurai di cui è stato a lungo responsabile, nella diocesi di Embu. Da due anni è l’unico religioso triestino rimasto. Opera assieme a tre preti africani e tre volontari dell’Accri. Don Piero porta l’esempio, il più eclatante, dei musulmani che qualche tempo fa sono riusciti a evitare un’ulteriore mattanza – l’ennesima – di civili cristiani nel Nord Est del Paese, al confine con la Somalia. Un gruppo di miliziani jihadisti di Al Shabaab era salito su un autobus intimando ai musulmani di separarsi dai cristiani per ucciderli, ma nessuno si è mosso. Stando alle testimonianze qualcuno avrebbe detto «uccideteci tutti o lasciateci andare». Un episodio che ha fatto impressione nell’opinione pubblica di tutto il mondo. «Molti oggi si chiedono se c’è qualcosa di nuovo che sta cambiando. Speriamo che questo porti dei frutti», osserva il sacerdote.
Primieri, impegnato nella sua missione con attività sociali, apertura di scuole e assistenza a donne e bambini, conosce bene l’Africa e le sue conflittualità.
Don Primieri, quale piega sta prendendo in Kenya il terrorismo islamico?
Il Kenya ha mandato l’esercito in Somalia per aiutare il governo locale, questo ha suscitato la reazione da parte dei fondamentalisti. Una reazione quindi dovuta alla presenza di militari in Somalia. La richiesta infatti è il ritiro dei soldati. C’è un clima di insicurezza, instabilità e paura perché non si sa mai cosa può accadere.
Come è cambiato il Paese da quando lei arrivò per la prima volta in Kenya?
Il primo presidente aveva sposato la mentalità capitalista, ciò è continuato soprattutto grazie alla forte presenza di inglesi e indiani che controllano l’economia. Una dinamica che ha comportato una forte disparità tra ricchi e poveri: meno del 20% controlla oltre l’80% della ricchezza nazionale. Squilibri che hanno messo altre basi al fondamentalismo islamico, soprattutto dove si vive con una mentalità di tipo tribale. Il fondamentalismo offre soldi, appartenenza e opportunità che attraggono i giovani e i più poveri.
Quali sono le peculiarità del terrorismo islamista in Africa rispetto a quello mediorientale?
Non sono un esperto, ma è chiaro che nelle zone mediorientali incidono le guerre e le pressioni tra Stati. Lì si approfitta delle divisioni, qui è più una questione tribale, risentimenti del passato e una forte influenza della religione.
L’estremismo sta prendendo piede anche tra la gente comune?
Sì, tra i giovani e nei posti insospettati. La popolazione ha paura perché non c’è controllo, soprattutto nelle moschee. Chi ha atteggiamenti fondamentalisti può facilmente prendere il controllo e indottrinare le persone con veri e propri lavaggi del cervello. E poi i contatti internet. Le famiglie sono preoccupate per i loro figli perché non si riesce a controllare cosa accade nelle moschee, nelle scuole e sul web.
Cosa pensa dell’episodio di qualche tempo fa, in quell’autobus?
Il fatto è avvenuto subito dopo la visita del Papa e il suo invito ad aprirsi al prossimo, ad aprire mente e cuore. Un coraggio che ha suscitato un’enorme impressione e molti si domandano ora se c’è qualcosa di nuovo che sta cambiando.
Come si sta fronteggiando il terrorismo islamico?
Il governo chiede di segnalare fatti e ciò che può creare problemi. Con questo appello alla responsabilità si sono riusciti già a evitare attentati. Il governo incoraggia una politica di solidarietà e “buon vicinato” in modo da individuare situazioni e persone pericolose, soprattutto nei posti di grosso assembramento.
L’Europa è attraversata da un flusso migratorio epocale. Secondo lei l’Occidente come si sta comportando?
Sentire che tra alcuni Stati si tirano su reti e filo spinato fa un po’ impressione. Se non si accettano le persone che arrivano cosa accadrà? Qui in Africa la crescita demografica è impressionante. Tra trenta-quarant’anni la popolazione sarà raddoppiata: se i giovani qui non trovano fiducia e speranza nel futuro non potranno che dirigersi in Europa. Bisogna prepararsi a questo scenario. Le grandi potenze, ognuna con le proprie responsabilità, devono trovare il modo per arrivare a soluzioni comuni nel tentativo di fermare le guerre e bloccare le vendite d’armi.
La vostra missione in Kenya è impegnata ad aiutare la gente sul posto, ma per molti emigrare resta l’unica opportunità.
Ci stiamo domandando tutti se la nostra attività ha un’utilità per il futuro. Noi ci prendiamo cura di contadini, donne, bambini e ragazzi affinché rimangano qui in modo da dimostrare che non c’è bisogno di andarsene perché possono trovare le loro risorse nel proprio territorio ed essere autonomi. Da parte mia mi sento di ringraziare i triestini per gli aiuti e la generosità che in tutti questi hanno ci hanno consentito di portare avanti molti progetti.
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