Adele Zara, la donna che salvò i Levi

Un libro pubblicato dalla Cleup ripercorre la storia tra Mira e Trieste della coraggiosa vedova che è stata proclamata nel 1996 “Giusta tra le Nazioni”
Di Paolo Coltro

Adele Zara era forse l'unica donna di Oriago che fumava il sigaro, un toscanello che riusciva a procurarsi anche in tempi di tessere annonarie. Nel 1943, Adele Zara aveva sessantun anni, era vedova da tre anni, aveva sette figli, nuore e nipoti che abitavano quasi tutti con lei, in totale diciassette, a Palazzo Zara, che in realtà era una grande vecchia casa screpolata e senza riscaldamento e con un unico bagno sulla riva del naviglio Brenta. Adele Zara è stata proclamata “Giusta tra le Nazioni” il 25 febbraio 1996 dalla commissione dello Yad Vashem a Gerusalemme. Era già morta nel 1969, ma il diploma è stato consegnato a “tutta” la famiglia Zara e il suo nome, quello di Adele, è stato inciso sulla parete di pietra che conserva memoria perenne dei Giusti che salvarono ebrei perseguitati.

Ma quella donna, «minuscola ma grande capostipite di casa Zara», vive in una memoria più vicina a noi, tra Mira e Trieste, nei ricordi della famiglia di Fulvia Levi e ora anche in un libro, “Adele Zara Giusta tra le Nazioni”, che con la sua asciuttezza storica è pur in grado di commuovere. Un libro di storia, ma di storie umane, umanissime, che lo fa vivere oltre l'epoca raccontata. Lo pubblica la padovana Cleup, e vi hanno messo mano due ex sindaci di Mira (Oriago è una frazione di Mira, in provincia di Venezia), Pompeo Volpe e Michele Carpinetti, oltre a Fulvia Levi, Matteo Me'ir Pasqualetto, Silvio Zenatto e Lucia De Lorenzo Poz.

In queste pagine lontane da ogni possibile retorica, la “salvazione” di una famiglia ebrea di Trieste, i Levi appunto: il padre Carlo, la madre Elisa Loly e la figlia Fulvia, allora tredicenne. I Levi scappano da Trieste dopo l'8 settembre 1943, quando è chiaro che con la Repubblica Sociale e l'occupazione militare tedesca ricomincerà la caccia all'ebreo. Come puntualmente avviene, con le dichiarazioni di Mussolini e soprattutto con l'ordinanza n.5 del 30 novembre 1943, diramata dal ministro dell'Interno della Rsi, Guido Buffarini Guidi e controfirmata dal capo della Polizia, Tullio Tamburini: carabinieri e polizia hanno l'ordine di arrestare e internare in appositi campi tutti gli ebrei e di confiscare i loro beni. Le autorità repubblichine di Venezia e Mira già il 10 dicembre forniscono le liste di nomi. Una parte della famiglia Levi riesce a riparare in Svizzera, ma Carlo, Elisa e Fulvia lasciano Trieste per le campagne di Aquileia, prima, poi si rifugiano a Venezia che però non è sicura. C'è un conoscente, ad Oriago, e arrivano lì. Qualche giorno in una locanda, poi vengono indirizzati ad Adele Zara.

Quando Carlo torna dal colloquio con quella donna piccola, decisa, quasi burbera, ha gli occhi lucidi: «Abbiamo trovato un tetto». Ma si sbaglia: hanno trovato una famiglia, protezione, disinteresse e affetto. I tre Levi resteranno a casa Zara fino alla fine della guerra, salvo brevi periodi nei quali la prudenza suggerì di spostarsi altrove, per timore di qualche possibile segnalazione. Sono mesi e mesi di batticuore ma di relativa sicurezza. «Adele, non so come, mi procurava della carne, quando caddi malata era lei a farmi le iniezioni». Tutto ruota attorno a quell'essere piccolo, deciso e febbrile. Praticamente incollata alla sua bicicletta, va dove c'è bisogno di assistenza e il paese l'ama. È probabilmente questa la “chiave” della salvezza dei Levi: nessuno li denuncia perché nessuno avrebbe denunciato Adele. Figurarsi che il maggiore dei suoi figli, Riccardo, è un fascista convinto, che tale rimane anche dopo l'8 settembre, e abita di fronte. E che pure un cognato della figlia è un fascista irriducibile: ma non dicono mai nulla. Perché non sanno o perché decidono di tacere, ed è più probabile la seconda ipotesi. Gli altri figli di Adele, Luciano soprattutto, fanno il possibile per la famiglia ebrea.

Tengono i collegamenti con lo zio e i nonni dei Levi a Venezia, vanno a trovare la vecchia nonna ricoverata in ospedale. Scrive Fulvia Levi: «Le nipoti di nonna Adele furono le mie prime ed uniche amiche, e lo sono ancora». La vita nel nascondiglio trascorre tra paure, allarmi, i bombardamenti su Padova e Venezia, visite improvvise di tedeschi che passano alla tabaccheria Zara, di partigiani che danno informazioni, e s'informano sui rifugiati, con l'assistenza del medico condotto dottor Bonollo, che porta anche un po' di zucchero per Fulvia che deve crescere... Sempre con la spada di Damocle della denuncia, perché sono sempre possibili strappi alla rete di solidarietà. Così fino alla Liberazione: il 29 aprile a Mira e Oriago arrivano i neozelandesi, succede che due soldati ebrei vengono a sapere, vanno a trovare i Levi: un incontro quasi muto, abbracci silenziosi e commoventi, e Adele che singhiozza in un angolo con il suo sigaro tra le dita.

Il libro non è solo la riconoscenza di Fulvia Levi, che dopo la guerra s'è data da fare perché ad Adele venisse riconosciuto il titolo di Giusto delle Nazioni: il procedimento viene aperto l'11 febbraio 1995 e concluso un anno dopo. Il libro è l'occasione per capire come l'emarginazione prima e la persecuzione poi degli ebrei venne vissuta nelle nostre terre. La memoria storica tiene vivi temi mai spenti, che nel libro passano dal ricordo individuale all'analisi più generale. Pagine vibranti, capaci ancora di commuovere, come si diceva perfino nei discorsi ufficiali pronunciati a Trieste quel 15 dicembre 1996, quando venne conferita la medaglia di “Giusta tra le Nazioni” ad Adele Zara e un certificato ad Eraldo Zara. Ne scrisse su queste colonne Paolo Rumiz. Lì, alla Comunità ebraica, era presente anche Fulvia Levi, che dopo la guerra si laureò in Lingue e letterature straniere alla Bocconi ed è stata insegnante d'inglese fino al 1994. Un anno prima della cerimonia, a casa Zara ad Oriago c'era stata una festa più “loro”: a 50 anni dalla Liberazione le amiche di quel tempo, le famiglie Levi e Zara s'erano ritrovate, «per piangere e ridere e anche per mangiare e scambiarci doni. Tuttavia non bastava, sentivo che bisognava fare qualcosa di più», dice Fulvia Levi. L'ha fatto.

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