Abiti, dalla crisi il rilancio di sarte e mendaresse
Nel gennaio 1947 il presidente del consiglio Alcide De Gasperi si recò negli Stati Uniti a chiedere aiuti economici indossando con dignitoso aplomb un cappotto rivoltato. Una pratica di economia domestica allora molto diffusa poiché era un capo costoso, e quand’era liso non si buttava ma si faceva rivoltare dalla sarta. Che con certosina pazienza sostituiva la parte esterna sciupata con quella interna ancora in buono stato, ne scuciva la fodera e la ricuciva dalla parte opposta, e poi faceva lo stesso con tasche, revers e collo.
Modelli anacronistici di virtuosismo sociale difficilmente applicabili alle caste nostrane, ma che in compenso stanno vivendo un vero revival a causa della crisi. Finiti i tempi in cui si approfittava del cambio di stagione per dare via in leggerezza i capi che non si indossano più. «Un cappotto in cashemire magari non si rivolta più ma si rifà. È indubbiamente un impegno artigianale che richiede pazienza e attenzione, ma il valore intrinseco del tessuto ne giustifica il costo e il tempo. Si smonta, si ridisegna e poi si ricuce. A operazione conclusa il risultato è un capospalla rivisitato di qualità», spiega Ana Saric, patron della sartoria Unik di via Tarabochia che conferma il trend in discesa degli ordini di capi fatti su misura a favore delle rimesse a modello. «Così con circa 180 euro – specifica Saric, una laurea in ingegneria tessile – si può sfoggiare un capo nuovo di zecca».
La necessità di fare economia ha fatto tornare in auge il “fashion restyling”, il riciclo creativo degli abiti. Vestiti fuori moda, o immettibili per i chili accumulati, oppure frutto di un acquisto compulsivo in una giornata no, anche se questo è un capriccio in fase di estinzione, come l’ippopotamo pigmeo. E se etichettarli “smessi” è diventato un lusso per pochi, si possono far resuscitare grazie a sarte e mendaresse. Le cui abilità di recuperarne lo smalto, stando alla trentina di laboratori di cucito e riparazioni spuntati come funghi in città nell’ultimo anno, pare siano sempre più gettonate.
«Se si lavora bene e si tengono prezzi ragionevoli il lavoro non manca. Certo la capacità di spesa non è più la stessa, anche se per alcune tipologie di abito, in primis quelli da sposa, le clienti non sono disposte a rinunciare alla qualità di fattura e tessuto». Questa l’autorevole opinione della decana delle sarte triestine, Erminia Dionis Bernobi che dirige da 60 anni con immutato polso e vigore il suo atelier. «Ma a parte il segmento sposa, la maggior parte delle clienti chiede oggi la rimessa a modello – aggiunge – un modo economico per ridare tono a un capo datato, sempreché la qualità ne giustifichi la spesa». In altre parole la sempreverde regola “costi benefici” applicata all’abbigliamento: far recuperare alla sarta una taglia per infilarsi nuovamente nel tubino in crêpe ha il suo perché, mentre non ne ha per l’abitino in viscosa.
«La clientela non riesce a capire che il nostro è un servizio artigianale di precisione e va pagato – racconta Luisa Martincich del laboratorio Taglia & Cuci – per molti il concetto di qualità del lavoro e del prodotto è molto relativo. Comprano un jeans a 6 euro e non vogliono poi spenderne altrettanti per fare l’orlo. Quindi in prima battuta si rivolgono alla concorrenza cinese che offre riparazioni a 2 o 3 euro, salvo poi riportarli da noi».
Il crescente appeal del vintage si sposa bene con la necessità delle ragazze di stare attente al portafoglio: hanno capito che si può vestire in modo non omologato, evitando cioè di comperare solo nelle catene fashion, con i tesori scovati nei bauli di casa. Al laboratorio di via Vidali, conferma Martincich, arrivano sempre più fanciulle in fiore per far riadattare a costo contenuto i jeans anni ’70 della zia, rivedere il gilè con le frange alla Woodstock di papà, risistemare i vestitoni in stile peace&love.
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