Abbate: «Lascio dopo 14 anni e dico sì alla Polizia locale armata»
TRIESTE In fondo di andare in pensione un po’ gli secca ma non può fare altrimenti. Venerdì scorso ha raggiunto quota 65 e così deve appendere la divisa al chiodo. Ma prima di tornarsene a Verona, dove ha la famiglia, Sergio Abbate, per 14 anni comandante della Polizia locale triestina, spara volentieri quelle munizioni - verbali s’intende - che per lungo tempo ha tenuto in serbo, perché non voleva che le sue opinioni interferissero con l’operato della politica: «Un corpo di Polizia deve essere armato. Non è pensabile che alcun corpo di Polizia, compresa quella locale, svolga il servizio sul territorio disarmato. Per me non dovrebbero essere i singoli Comuni a decidere su una materia così delicata, perché deve essere una norma a obbligare l’adozione dell’arma per legge. Credo di poterlo dire a ragion veduta perché alle spalle ho una duplice esperienza, per dieci anni ho comandato la municipale di Verona, che era armata, per quattordici quella di Trieste, disarmata».
Comandante Abbate, il vigile armato divide però la cittadinanza e le forze politiche.
L’argomento implica conoscenze tecniche e normative specifiche. Il cittadino chiede forse al chirurgo se in sala va con il bisturi o con la cazzuola? La gente scherza: ma quelli si sparano sui piedi... Li ho sentiti anch’io. Ma non sanno quali strumenti necessitino per svolgere il servizio, perché nell’effettuarlo si deve sempre considerare l’eventualità, l’ipotesi della extrema ratio.
Quanti agenti armerebbe?
Tutti. Non ha senso che qualcuno porti l’arma e altri no. Il presidio del territorio presuppone l’arma.
Ma la sua vita professionale parte da lontano. Non si è sempre occupato di multe e sanzioni... Era partito dalla banca e dalla finanza. E dalla sua città natale, Napoli.
Dove sono nato al Vomero, in via Cilea, a quattro passi da piazza Vanvitelli. Ho frequentato i licei Sannazzaro e Vico, mi sono laureato in giurisprudenza con una tesi in diritto della navigazione sull’urto tra navi e aeromobili. Tema che purtroppo sarebbe diventato di grande attualità. Poi ufficiale di complemento in aeronautica, assegnato a Villafranca: mi ero avvicinato a Verona dove abitava l’allora fidanzata. E dopo la naja l’assunzione al Credito Italiano.
Con trasferimento al Nord.
Per sposarmi. Quindi Verona, dove lascio la banca per dedicarmi al campo dei crediti al consumo, prima in una società del gruppo Mediobanca, successivamente in una realtà legata alle Popolari. E viaggio molto: Reggio Emilia, Parma, Trento, Milano. Gli anni dal 1977 al 1993 sono il capitolo bancario-finanziario della mia vita.
Nel 1993, a quarant’anni, la vocazione al comando. Come mai?
Ho pensato a un impegno da dedicare alla comunità. E mi era rimasta un po’ di nostalgia per l’uniforme che avevo lasciato quindici anni prima. Così mi sono detto: tento il concorso da vice-comandante della municipale veronese. Era la stagione di Tangentopoli e la commissione d’esame era rigorosa, le raccomandazioni valevano meno... Vinsi il posto ma il “vicariato” durò solo un anno, in quanto il comandante De Cantis decise di andarsene in quiescenza. Toccò a me, per nove anni.
Con quali sindaci ha lavorato a Verona?
Con il democristiano Enzo Erminero, con la forzista Michela Sironi, con Paolo Zanotto del centrosinistra. Durante il mandato di Zanotto lascio il comando e assumo la dirigenza delle attività produttive e del commercio. Ma per poco.
L’approdo a Trieste.
Il contatto avviene con Roberto Dipiazza, Santi Terranova, l’allora assessore Fulvio Sluga. Prendo servizio come comandante nel febbraio 2004. Dipiazza mi fa un contratto di un anno, dicendomi: «È l’anno del 50° del ritorno di Trieste all’Italia e ci sarà molto da fare. Se lei gestirà bene questo periodo, a Trieste ci resterà tutta la vita. La profezia del sindaco si è avverata! La magìa delle date: arrivo con il cinquantesimo della seconda redenzione, parto con il centenario della prima.
Verona e Trieste: quale la realtà più difficile?
Verona, con 250 mila abitanti, è un po’ più grande di Trieste ma l’impegno è uguale, 24 su 24. Il cellulare non è mai spento, anche a distanza.
Lati positivi e negativi dell’esperienza triestina?
Un’iniziale, difficile gestione del corpo ha lasciato poi il campo a grandi soddisfazioni. Al mio successore lascio una struttura in ottime condizioni. La cittadinanza è molto esigente, a tutela di un’alta qualità della vita. Il nostro dovere è tenere la città ordinata e l’impegno deve essere costante: circolazione stradale, il borseggiatore sul bus, il piccolo spacciatore, il venditore abusivo...
Momenti di più forte preoccupazione?
Non ne ricordo di particolari. Diciamo che le nuove norme in materia di gestione degli eventi obbligano ad alzare il livello di guardia.
I ricordi più belli?
Adunata degli Alpini, concerto dei tre presidenti, San Nicolò festeggiato in moto portando regali ai bambini con problemi.
Ha punito molto in questi 14 anni?
No, ho sanzionato lo stretto indispensabile. Rimproveri scritti e verbali. Ho cercato di prevenire. Ci sono stati un paio di licenziamenti, per assenteismo e per furto di marche da bollo. Un buon bilancio.
Adesso, a meno di due settimane dalla pensione, lo può confessare: il sindaco preferito?
Come si fa a non apprezzare la verve di Dipiazza? Ma ho lavorato bene anche con la Sironi e con Cosolini.
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