A Trieste apre la scuola di filosofia

Al Dipartimento di salute mentale il laboratorio ideato da Pier Aldo Rovatti. Ed è già tutto esaurito
Di Mary B. Tolusso
Foto Bruni 17.10.12 Pier Aldo Rovatti
Foto Bruni 17.10.12 Pier Aldo Rovatti

TRIESTE. Nasce da una costola del Laboratorio di Filosofia Contemporanea di Trieste, ma non è un’officina riservata a pochi addetti ai lavori, né un’università con un preciso modello di istruzione. È una scuola, appunto, dal nome più semplice e decisamente più pratico. Una “Scuola di filosofia”, voluta da Pier Aldo Rovatti, sostenuta finanziariamente solo dalle iscrizioni. Una formula azzeccata a giudicare dalle richieste, più del doppio del tetto prestabilito. Aprirà i battenti sabato con un ciclo di lezioni nella sede del Dipartimento di salute mentale di Trieste (via Weiss, 5). Non sono lezioni pubbliche, questo va detto, può accedervi chi ha formulato una domanda nell’apposito sito (www.filolab.it), e di sicuro siamo ben lontani dall’idea di istituto peripatetico, di filosofia in senso stretto insomma. Qui la disciplina è uno strumento di pensiero con cui introdursi nell’analisi di altre realtà. «C’è da dire che l’iniziativa è un esperimento – dice il filosofo Pier Aldo Rovatti – al centro c’è la parola filosofia e ciò che questa parola esprime e richiama. Accanto a ciò avevamo un’altra necessità, di mandare un messaggio più diffuso a tutta una serie di luoghi, aspetti e pratiche sociali».

Leggendo infatti le tracce dei corsi c’è una dimensione borderline in cui si passa dalla filosofia alle pratiche culturali intorno a essa. Quindi la filosofia a servizio di…

«La filosofia a servizio di un’esigenza critica che si esprime in diversi comparti delle pratiche sociali. La composizione degli allievi può chiarire l’idea, meno del 50% degli iscritti hanno una formazione filosofica specifica, il resto delle persone appartengono ad altri mondi. C’è una richiesta di senso da riportare nelle vite individuali di chi si occupa di pratiche culturali e sociali di altro tipo, anche al di fuori del mondo umanistico».

Cioè anche lo studente di ingegneria ne è stato attratto?

«Certo. Molti iscritti non hanno a che fare con la disciplina, molti sono legati alle pratiche della salute a diversi livelli, dall’infermiere fino all’operatore psichiatrico. Così come ci sono individui che lavorano sul campo tecnico o persone che alla fine del loro percorso lavorativo vogliono dedicarsi nuovamente allo studio. Insomma il quadro è composito ed è quello che volevamo».

E quali sono stati i criteri di selezione per ammettere gli allievi?

«Le richieste corrispondevano a più del doppio del tetto prefissato. Di conseguenza è stato ideato uno staff che lavorasse sui curricula. Gli esclusi potranno inserirsi il prossimo anno, oltre a poter partecipare ad alcune lezioni allargate di resoconto della nostra riflessione».

Nove corsi in tutto che ruotano intorno al mondo psi e raccolti sotto il titolo generale di “Soggetti smarriti”. Ma chi è il soggetto smarrito?

«Siamo entrati in una sorta di confusione rispetto all’uso della parola “soggetto”, che tuttavia usiamo costantemente. La nostra ipotesi è che si possa tentare di ritrovare una designazione di questi soggetti smarriti. Ci siamo lasciati alle spalle anni infine stigmatizzati per vari motivi, ma che contenevano anche formidabili suggerimenti rispetto alla questione della soggettività. È un tema che affronterò nel mio corso “La cultura dimenticata”».

E dimenticando ci perdiamo?

«Io parlo anche di amnesia, uno di questi smarrimenti è proprio la dimenticanza. Non c’è un futuro, ma al tempo stesso siamo sicuri di possedere qualcosa che si chiami passato? Questo è sicuramente un input che muove alcuni degli insegnamenti della scuola, fare un ponte tra questo presente tendenzialmente desertico e un passato che va criticato, ripercorso e in cui possiamo ritrovare delle fonti. Lo stesso Foucault, tutto sommato, appartiene a un passato abbastanza dimenticato o tradotto in pillole anche discutibili».

Foucault, Deleuze, Derrida sono nomi che ritornano nei corsi.

«Non c’è comunque una filosofia che sta dietro alla scuola e che vogliamo propinare ai nostri allievi. L’esigenza è quella di un esercizio critico. Ipotizziamo di riuscire a illuminare di nuovo un po’ questa parola, “soggetto”, dall’altra parte però questo soggetto deve essere padrone di sé? O deve essere in qualche misura un soggetto capace di perdersi? C’è una parte dell’idea di smarrimento che può essere recuperata, una soggettività che per ritrovarsi deve anche sapersi perdere e muoversi tra diversi luoghi. Ciò comporta anche il carattere interdisciplinare di questa scuola, la scelta dei comparti si deve anche alle competenze, si terrà più conto della psicoanalisi e della psichiatria critica rispetto ad altre forme di sapere, ma si parlerà anche di letteratura».

Cosa propone di diverso questa scuola rispetto a altre offerte che ruotano intorno agli stessi temi?

«Ci sono molti elementi di rischio in questa iniziativa, però è vero che la risposta è stata fin troppo grande e ciò significa che c’è qualche cosa che assomiglia a un bisogno o a un’esigenza con cui non abbiamo ancora fatto i conti a livello culturale. La filosofia è un esercizio critico che comporta un obiettivo: la trasformazione di se stessi, non certo per fortificare una certa idea o ideologia di identità e di soggetto, piuttosto per arrischiarsi a navigare in mare aperto. Il problema è agitare l’ipotesi che ci sia del pensiero che si può riattivare, ricostruire in tante zone delle pratiche culturali che in questo momento sono abbastanza mortificanti».

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