A ShorTS la storia di Tony Driver l’italiano “deportato” in Italia

Su MYmovies il film di Ascanio Petrini sulla vicenda vera del tassista barese cresciuto in America e ricacciato in patria per aver trasportato immigrati

TRIESTE Quando si parla di immigrazione, si finisce spesso col generalizzare una miriade di storie personali estremamente diverse l’una dall’altra. Per fortuna a volte arriva il cinema a stringere il campo sulle persone e le loro inaspettate vicende di migrazione, come quella raccontata dal film “Tony Driver” di Ascanio Petrini, in programma a ShorTS International Film Festival questa sera alle 20, sul sito www.mymovies.it/live/shorts/.

Trieste, la sfida dei cortometraggi è virtuale

Al centro c’è un uomo al quale l’«american dream» è stato strappato: è Pasquale Donatone, detto Tony Driver, barese che a nove anni è immigrato negli Usa con la famiglia e lì ha vissuto per 40 anni, sposandosi, facendo figli, divorziando, non avendo però mai cura di prendere la cittadinanza americana. Nel 2012 Tony viene beccato dalla polizia di frontiera in Arizona mentre trasporta illegalmente sul suo taxi dei clandestini: rifiuta di andare a giudizio e viene rispedito subito in Italia.

Trieste, la sfida dei cortometraggi è virtuale


Come un alieno scaraventato in un altro pianeta, si ritrova a Polignano a Mare, senza un soldo, vive prima in una grotta e poi in una roulotte, inizia a fare l’attacchino. Ma il pensiero è sempre lì: tornare nella sua America, a tutti i costi, perché sente che quella è la sua vera terra. Ci arriverà a un passo, sul muro di confine tra Messico e Stati Uniti. Il film è un miracoloso equilibrio tra realtà e finzione, «direi un documentario che mette insieme realtà e volontà, la vicenda vera di Pasquale e i suoi sogni», spiega il regista.

Presentato alla scorsa Settimana della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia, visto oggi appare ancora più attuale, nei giorni in cui il Presidente Trump festeggia la realizzazione dei 321 chilometri del muro (ma il confine con il Messico è lungo più di tremila chilometri) e la corte d’appello della California ha giudicato illegale l’uso di fondi del Pentagono per la sua costruzione.

Petrini ha incontrato Tony a Polignano a Mare, dove vivono entrambi: «Il suo arrivo ha sconvolto il paese», racconta il regista. «Pian piano tutti abbiamo imparato a conoscerlo. All’inizio volevo girare un film di finzione sulla sua vicenda, ma poi ho capito che nessuno avrebbe potuto raccontarla meglio di lui. Partendo dalla sua storia ho immaginato il suo tentativo di tornare negli Usa illegalmente. Quando siamo andati a girare nel deserto del Messico, Pasquale voleva presentarsi alla frontiera con il passaporto italiano, ma in America si sarebbero subito accorti che era un deportato. E poi era il 2017, Trump aveva inaugurato la sua policy molto dura sulla migrazione. Ora sta costruendo il muro anche sulle montagne, distruggendo con le sue barriere in ferro la natura dove è tutto parco naturale».

Il film gioca su un’assenza fisica, quella di Tony dall’America, e una presenza mentale, quella dell’immaginario americano, non solo nel protagonista ma anche in noi spettatori. «Tony è un ragazzo cresciuto nella grande metropoli americana degli anni ‘70 come De Niro e Al Pacino. Gli americani hanno bisogno di qualcosa che li unifichi: ora c’è Netflix, prima c’erano i film. Quel cinema americano, comunque, appartiene a tutti: non è casuale, gli americani hanno lavorato molto perché il loro immaginario entrasse nel quotidiano di chiunque, da Chicago a Bari. Ogni frase di Pasquale era per me come la sequenza di un film: la sua giovinezza a Chicago mi ricordava “Taxi Driver”, quando si è trasferito a Yuma mi sembrava di vedere un western moderno, le storie di messicani e droga richiamano serie come “Breaking Bad” o “Better Call Saul”».

Oggi, dopo tante peripezie, Tony è ancora a Polignano, «si sta abituando a maneggiare la situazione italiana. L’unico rimorso è non poter rivedere i figli in America».

Petrini invece sta lavorando a un documentario di archivio, “Tito e Achille”, «su due figure del Salento dimenticate nel dopoguerra: il tenore Tito Schipa e l’amico Achille Starace, che ha inventato la semiologia fascista, dal saluto romano alla scritta “duce” in maiuscolo: cose che, viste con gli occhi di oggi, sono la parte più ridicola di quel periodo drammatico». —

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