A picco dopo un ammutinamento: dai fondali le nuove verità sul 'Mercurio'
Dallo studio del relitto emergono nuove ipotesi sulla battaglia di Grado del 1812
GRADO
Forse fu lo stesso comandante del vascello ”Mercurio”, Palinucchia, a far saltare in aria la nave, perché l’equipaggio non voleva combattere e meditava di arrendersi agli inglesi. È una delle ultime ipotesi emerse dalle ricerche sul relitto del ”Mercurio”, la nave da guerra del Regno Italico affondata al largo di Grado e Lignano nel febbraio del 1812, considerato ormai uno dei più importanti giacimenti archeologici sommersi d’Europa. Dalla scoperta del relitto, nel febbraio del 2001, quando il motopeschereccio ”Albatros” della famiglia Scala di Marano Lagunare impigliò le reti in uno dei cannoni che giacevano sul fondo, anno dopo anno le campagne di scavo si sono susseguite sotto la direzione di Carlo Beltrame, docente al dipartimento di Scienze dell’antichità e del vicino Oriente dell’Università Ca’ Foscari, in una lunga e metodica opera di rilevamento, studio e ricostruzione che ha pochi eguali in Italia. La campagna 2010 si chiude in questi giorni, ed è stata realizzata nonostante tagli ai fondi pubblici, maltempo e persino una tromba d’aria.
Il lavoro svolto, tassello dopo tassello, permette di ricostruire cosa accadde durante quella che gli storici chiamano la Battaglia di Grado, lo scontro navale tra una flottiglia italo-francese e una squadra britannica che costò a Napoleone l’egemonia sull’Adriatico.
In questa Waterloo del Mediterraneo l’episodio più cruento fu appunto l’affondamento del brick ”Mercurio”, ”Mercure” sui documenti francesi, che esplose spezzandosi in due forse perché colpito nella santabarbara, o appunto per un’azione di sabotaggio. La nave colò a picco portando con sé praticamente l’intero equipaggio, una novantina di uomini in gran parte veneti, chioggiotti, istriani e quasi certamente anche triestini. Tre soli i superstiti, che sopravvissero poco, soccorsi dagli inglesi.
A diciotto metri di profondità oggi il relitto, pur nella distruzione dovuta all’esplosione e ai secoli passati sul fondo del mare, conserva praticamente intatta la testimonianza di quel lontano combattimento. Dal punto di vista storico-archeologico è un caso unico: sono rarissimi gli esempi di navi del XIX secolo affondate e così ben conservate nelle strutture, nelle dotazioni di bordo, persino con i resti dei marinai. Lo scafo del relitto è nella gran parte sepolto dalla sabbia, la zona prodiera è quella oggetto degli scavi, la zona centrale è data per persa - semidisintegrata nello scoppio - mentre a cinquanta metri di distanza dal giacimento principale si trova, isolato, il dritto di poppa. Sovrapponendo la mappa dello scavo archeologico al disegno originale del vascello (vedi il grafico sopra, nell’elaborazione di Stefano Caressa) si vede come solo la zona prodiera sia talmente ricca di reperti da giustificare un impegno di ricerca ancora lungo e proficuo.
Fino ad oggi sono migliaia gli oggetti personali, le dotazioni di bordo, le armi recuperate dagli archeologi, sufficienti per riempire un intero museo. Senza contare le spoglie di almeno sette marinai - forse otto con i resti rinvenuti in questi giorni - le cui identità, per altro, potrebbero essere accertate se si riuscisse a recuperare la lista dell’equipaggio, conservata in qualche angolo inaccessibile dell’Archivio di Stato di Venezia.
Proprio dalla ricerca documentale - che va di pari passo con quella archeologica sul campo - arrivano alcune novità che aggiungono nuovi particolari sull’andamento dello scontro navale, come spiega Marco Morin docente di criminalistica ed esperto di storia militare navale che da anni collabora con Beltrame. «Sia secondo un rapporto inglese sulla testimonuanza dei tre naufraghi del Mercurio - spiega Morin -, sia secondo testimonianze francesi a bordo della nave italiana l’equipaggio era pronto ad ammutinarsi preferendo consegnarsi agli inglesi piuttosto che morire per Napoleone; e il comandante del brick aveva minacciato di far saltare la santabarbara se gli uomini non avessero obbedito agli ordini». Cosa che poi avvenne, anche se altri rapporti forniscono versioni contrastanti tra francesi e inglesi. Quest’anno alla campagna di scavo (realizzata grazie ai soli contributi della Regione Friuli Venezia Giulia e del Comune di Lignano) ha partecipato - il giacimento è uno dei pochi campi scuola di archelogia marittima - anche uno studente straniero, Dan Pollard, dell’Università di Bristol. «Prima di venire qui - racconta - ho esaminato ai National Archives di Kew, a Londra, i diari di bordo del Victorius e del Weasel, le due unità britanniche che presero parte alla battaglia, e li ho confrontati con le fonti francesi: bene, secondo gli inglesi non ci sono dubbi, fu una loro cannonata a far esplodere il Mercurio, mentre i francesi parlano sempre di ”incidente”».
In questi giorni gli archeologi subacquei, tra cui Dario Gaddi e Francesco Dossola della Soprintendenza del Veneto, hanno recuperato dal fondo del mare oltre ad armi, parti di divese e resti umani anche due mazzoli, due trivelle e un sacchetto di chiodi e tre grandi botti. Segno che lì dove la sorbona ha aspirato la sabbia un tempo c’era la cala del carpentiere della nave. Un altro fotogramma della vita di bordo interrotta dal furore della battaglia del 1812.
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