A Monfalcone decine di interventi per sedare le liti tra conviventi
MONFALCONE Con l’hashtag #iorestoacasa le pareti domestiche sono diventate nell’immaginario collettivo un rifugio. Il riparo, lo schermo totale a un virus, il Covid-19, che colpisce nella carne e negli affetti. Eppure la casa non è un luogo sicuro per tutti, anzi per tutte. Non lo è per le mogli, le madri, le compagne, talvolta pure le figlie o i figli, di uomini violenti. Psicologicamente o fisicamente. Donne del Monfalconese che da quando è scattata l’emergenza, accedono in numero considerevolmente inferiore alle strutture antiviolenza, come il Centro Da donna a Donna, sempre aperto pur con differenti modalità dettate dalle prescrizioni del periodo. «Un calo drastico in linea con il trend nazionale del 50%», sostiene la presidente della onlus Carmelina Calivà. Non inspiegabile: le vittime sono “recluse” con il carnefice.
E che in generale gli appartamenti siano diventati luoghi di insofferenza emerge, pur in maniera meno lampante, dalle chiamate ai carabinieri, impegnati, tra i vari servizi in città, anche a ricondurre lo stress domestico accumulato nella convivenza forzata h 24 nell’alveo di una normale discussione, altrimenti a rischio degenerazione. Punte, in una giornata la scorsa settimana, anche di 8 interventi al domicilio solo per i militari di via Sant’Anna. In altri giorni questo tipo di mediazione magari è risultata meno evidente, ma che le famiglie siano in difficoltà, su più fronti, è sotto gli occhi pure dell’amministrazione che annota il fenomeno. Mentre la Polizia di Stato, con l’App per smartphone, Youpol (nata per il contrasto a bullismo e spaccio), si è aggiornata prevedendo la possibilità di segnalare i reati violenti che si consumano tra le mura domestiche. È lecita anche a comunicazione anonima, senza registrazione. E pure chi è stato testimone diretto o indiretto, vedi i vicini di casa, può denunciare all’autorità, inviando un messaggio, con foto e video se disponibili.
Gli interventi, dunque. Non si tratta, nel caso della chiamata alle forze dell’ordine, solo di liti tra coniugi, di cui i carabinieri vengono messi al corrente dai diretti interessati o dai dirimpettai che chiamano per le grida, ma anche di persone dello stesso sesso costrette, per tutt’altri motivi, a coabitare. Magari in spazi ristretti. Quando la convivenza, dettata da ragioni lavorative, come per i trasfertisti, diventa prolungata tra persone che non si sono “scelte” certe asperità o differenze caratteriali possono emergere più acutamente. Si sono verificate perfino situazioni di questo tipo nella città del cantiere, dove diverse fabbriche si sono fermate.
In ogni caso – ed è l’aspetto positivo – non si registrano per ora episodi sfociati, negli ultimi giorni, in situazioni particolarmente gravi. Mentre nei dissidi tra coniugi o le liti tra conviventi, alla fine gli animi si sono con frequenza sedati. Ma tra gli addetti ai lavori, soprattutto chi assiste le donne vittime di violenza, serpeggia il timore di situazioni potenzialmente esplosive in scenari di tale straordinarietà, anche se tutti auspicano non si verifichino eventi tragici.
Intanto al centro antiviolenza Da donna a Donna in piazza Furlan 2 a Ronchi dei Legionari (0481474700, mail: info@dadonnaadonna.org) si continua a lavorare, pure in emergenza sanitaria. Sospesa l’attività vis à vis, si continua a seguire le assistite con tutte le protezioni possibili. Si lavora da remoto e si sono sanificati gli ambienti. Ma le mascherine da dare alle cinque operatrici e alle persone seguite «sono ormai esaurite e si lavora al momento senza», cercando l’acquisto da privati. Tutto è reso complicato dal fatto che gli stessi servizi pubblici operano diversamente, per via del contenimento dei contagi da Covid-19. «Arrivano molte meno donne da quando c’è il coronavirus – sottolinea Calivà –, soprattutto si evidenziano molte meno richieste spontanee. L’ipotesi, frutto della logica, è che la donna si trova a casa con il maltrattante e per questo non segnala». Le tensioni in casa si accentuano anche per le «difficoltà economiche, dettate dall’assenza di lavoro o di ammortizzatori sociali». L’associazione cerca come può di proseguire l’attività e dare supporto, nonostante la scarsa mobilità e la mancanza di contatti. Anche in emergenza l’accoglienza è garantita. «I telefonini e le tecnologie che rendono possibile vedere in volto le assistite però in questo momento danno un apporto importante», aggiunge Calivà. «Ma ciò che preoccupa – conclude – è il silenzio. C’è troppo silenzio».
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