A Isola Morosini prigionieri dei fantasmi

di Tiziana Carpinelli
SAN CANZIAN D’ISONZO
A Isola Morosini, millecinquecento ettari di terra tra i due rami dell’Isonzo, lo Sdobba e l’Isonzato, gli abitanti vivono prigionieri di un piccolo mondo antico che nessuno compra perché costa troppo. Basta abbandonare l’asfalto e inoltrarsi lungo le stradine sterrate per assistere a uno scenario da post apocalisse, diventato ormai normale. Travi, calcinacci, resti di bagni e cucine, spuntano tra gli scheletri delle ex case coloniche per raccontare come un tempo in questi luoghi scorresse la vita.
Prima della ritirata della mezzadria, qui ritenuta una disfatta di Caporetto, il paese ospitava un migliaio di anime. Oggi se ne contano in tutto poco meno di duecento. Ci sono più mucche (trecentosessanta) che residenti. Ma una volta non era così. E a testimoniarlo, in mezzo a una natura fiera e belluina, che proprio come nei film di fantascienza si è riappropriata degli spazi, avvolgendo mattoni, bucando tetti, oscurando finestre, ci sono gli edifici, osceno monumento del degrado. Nonostante ciò, tale è la suggestione dei luoghi che i forestieri che attraversano Isola Morosini ne rimangono stregati. Si innamorano di quel paradiso verde, minuscola oasi di serenità. Chiedono informazioni sui prezzi delle ex case coloniche, per ristrutturarle. E poi non tornano più. I residenti spiegano che le ampie cubature degli immobili rendono gli investimenti inaccessibili alla maggior parte delle famiglie, mentre i vincoli architettonici fanno sì che quegli spolpati involucri di casa restino lì, immutabili nel tempo. E così gli anni passano, i giovani fanno fagotto, la frazione demograficamente si impoverisce, senza che nessuno riesca a invertire la tendenza.
Negli anni Settanta si andava all’osteria di “Iurato” per bagnarsi la lingua con un quarto di merlot e fare la spesa nella vicina bottega, dove si poteva acquistare un po’ di tutto: dal cartoccio di maccheroni, disciplinatamente riposti in cassetti di legno, al mezzo litro d’olio, che colava dalla cisterna, attraverso l’imbuto, direttamente nella bottiglia di vetro. Da quegli anni a oggi è cambiato tutto: adesso c’è il niente dove prima c’era qualcosa. Drogheria, bus, scuole: tutto soppresso. Le famiglie dipendono completamente, per i servizi, da Fiumicello. L’ex ambulatorio medico, nella cui sala d’aspetto stazionavano i pazienti del paese, è come una discarica: solo materassi, sanitari, sedie sfondate e immondizia. La centrale elettrica (sì, Isola Morsini aveva anche una centrale elettrica) è stata dismessa da tempo. Si parla di farne un museo. Se ne parla, appunto. Le vecchie elementari pure sono rimaste lì, abbandonate. L’altra scuola, più recente, è stata invece ingegnosamente riconvertita in una “palestra” per fioristi e, alla luce del contesto ambientale, questa è stata proprio una mossa azzeccata. La cura del verde si sposa perfettamente con la natura circostante. Non è raro scorgere cigni o i rari uccelli che stazionano alla Cona: gli animali, che a differenza degli umani ignorano il concetto di “confine”, spesso travalicano la riserva e se ne vanno a spasso per l’Isola.
Le foto color seppia scattate da Angelo Tentor e messe in mostra da un volenteroso abitante, Adriano Frate, nella sala parrocchiale ritraggono i “cariolanti” impegnati negli anni Quaranta a rialzare gli argini dell’Isonzo e le operaie a raccogliere il tabacco (all’epoca ogni contadino aveva una parte del campo dedicata a questa coltivazione). Raccontano una comunità che pullulava di vita.
Ora i terreni di Isola sono perlopiù seminati a cereali, miglio e frumento: una grande azienda che lì ha sede possiede gran parte delle aree, immobili compresi. Gli orizzonti appaiono paurosamente distesi. Ti fulminano con lo sguardo. La gente del posto evidentemente ama i silenzi di Isola Morosini, la sua lontananza da tutto ciò che è frastuono e traffico. Si sentono appagati dalla bellezza della natura che li abbraccia. Ma avvertono come un macigno il rischio di finire per essere parte di un’oasi. Pezzi rari di una civiltà contadina che si è smarrita nel tempo. La montagna di pietre ed erbacce che ha preso il posto della centrale elettrica è un monito. È il vuoto che mangia le memorie.
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