A cosa serve una nave nel porto

TRIESTE. Entra una nave in porto e pensi che le cose possono cambiare. Che, in fondo, al termine di quel costante prendersi in giro di tanta gente di mare, con le sfumature così differenti fra Trieste e Bisiacaria, ci sia finalmente voglia di futuro. Quando accade un evento del genere, ché di evento si tratta, bisogna andarci cauti. Non è la prima volta che si palesa una grande opportunità e poi non viene sfruttata per le ragioni più diverse. Il sistema triestino è capace di preferire la sabbia all’olio per gli ingranaggi. Non c’è nemmeno una ragione. È un incrocio fra il viz e la difesa di posizione, e non fa ridere.
Il Porto nuovo e la Piattaforma logistica colgono un risultato tangibile e possono affermare, dopo tante difficoltà, che il Porto c’è, l’Autorità dell’Alto Adriatico funziona e riesce a mettersi in relazione con i principali operatori che salgono dal Mediterraneo su su fino ad arrivare con le merci nel centro manifatturiero dell’Europa. Non sono più proclami, sono fatti.
È chiaro a tutti che si tratta di un ulteriore elemento del rafforzamento della posizione di Trieste e della Venezia Giulia all’interno delle rotte commerciali mondiali. Non basterà, ma senza questa toccata non ci saranno neppure le altre e già si sta cercando di capire come ampliare la capacità operativa del nuovo terminal multipurpose.
A Monfalcone si guarda con attenzione all’evoluzione triestina e la città si immagina una dimensione retroportuale per sfuggire a un passato industriale non sempre esemplare, come dimostrano le pagine orribili delle morti per asbestosi. E perfino Gorizia, nel suo perenne ondeggiare, aspettando una nuova identità, spera che dal mare possa giungere nuova vita per l’esanime autoporto. In quei 208 metri di scafo c’è un pezzetto di possibilità ben più vasto, come si capisce, degli interessi di tedeschi e turchi. Era ora.
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