A Caporetto sconfitta i turisti bevono birra e si lanciano nel rafting

CAPORETTO Celestino Bes, capitano degli alpini del battaglione omonimo. Cappella fatta costruire da lui, già in tempo di guerra. A Planica, più o meno mezz'ora dopo aver lasciato il rifugio Planina Kuhinja, ci imbattiamo in questa struttura di culto. Un balcone sulla valle sottostante. Vista aperta. I vecchi stavoli apparentemente abbandonati nei pressi del Kožljak sono ormai un ricordo. Il sentiero sbuca improvvisamente sulla cappella, bianca, restaurata dal Museo di Caporetto tra il 1993 ed il 1996. Questa sera arriviamo lì, dove comincia la disfatta. Assenza di vento.
Il prato è ancora umido dalla pioggia di ieri. Targa "Consolatrix Afflictorum" sulla cappella. Bosco fitto. Caporetto laggiù. Ultima tappa. Otto giorni di cammino. Duro. Faticoso. A tratti estenuante. Non per il cammino. Non è il camminare la parte difficile di questo viaggio. È lo stare continuamente in bilico sopra questa terra, dove ogni passo si contano quattro morti. Nel giungere a destinazione c'è qualcosa che turba l'anima. Com'è possibile chiamare in causa la guerra ancora ed ancora? Perché in fondo non vogliamo imparare dagli errori?

Košec. Poi paese di Drežnica. Poca agricoltura. Neanche 300 abitanti. Dei bambini giocano in un cortile. Si rincorrono. Poi un'altra chiesa, del Sacro Cuore. Rimasta intatta durante tutto il conflitto. Italiani che occupano il paese. Tanti se ne vanno. Tanti se n'erano già andati, sgombrati a forza dall'Impero verso zone sicure. Come gli istriani, come i "bumbari" da Dignano, verso Wagna. Come la maestra Dorina Biasiol. Altri paesani vengono portati via dall'esercito italiano ed internati. Tanti emigreranno dopo la guerra verso il Regno degli Sloveni, dei Serbi e dei Croati.
Una signora ci guarda divertita. Forse cominciamo ad esser stanchi anche agli occhi delle altre persone. Da Drežnica in poi è tutta discesa. So che stiamo arrivando. Chiudere un fronte, un viaggio, una preghiera laica iniziata con i pensieri del See Battalion Triest, proseguita con le corrispondenze dal fronte, quel rumore insopportabile, di combustioni durate quattro anni, di morti annunciate. Una terra di faglia, di cammino, perché quel calpestìo brucia, e brucia ancora, ad ogni passo. La terra è ancora umida ma non c'è fango, di acqua veramente poca.

Più di 250 mila prigionieri, un milione di civili in fuga, con la speranza che i ponti sul Tagliamento non siano stati fatti saltare. Oltre 10 mila morti. Questo è il luogo verso dove stiamo chiudendo questo rito. Antonio Gramsci, "Quaderni dal carcere": "Ogni fatto militare è anche un fatto politico e sociale". Dove si abbatte un colpo di bombarda, lì è un cimitero.
Ancora Ceronetti sull'Isonzo. "Da attraversare sotto il fuoco, figura del fiume della vita, premio la morte".
Basta. Mi chiedo il senso di tutto ciò. Paolo cerca di spiegarmi che c'è talmente tanta sovrapposizione che cercarne, le ragioni, non spetta a noi. "Dovremmo fare in modo che le voci di questi caduti vengano ascoltate a Bruxelles o a Strasburgo". Il bosco continua a proteggerci dal paese a fondo valle, si, quella storia che noi italiani non amiamo. Come gli inglesi non sopportano Passchendaele, i francesi Waterloo, i tedeschi Stalingrado, o gli esuli Parigi 1947.
Dopo Grmada sbuchiamo nella zona del campeggio Koren. Prima di entrare in paese, oltrepassando a piedi il ponte napoleonico, mettiamo i piedi nell'Isonzo.
Merlo. Stavolta non canta, non deride. Acquaiolo. Colori chiari. Vegetazione fluviale. Sabbia. Sollievo temporaneo. L'Isonzo non è un fiume che si doma facilmente, né per sempre. Tutt'altro. "Ti prova a immaginarte cos' che gaveva volesto dir scampar via de qua in quei giorni". Non credo di esserne capace.
Le sponde della So›a non sono regolari. Da un lato relativamente semplici, dall'altro nessuna via d'uscita. Calcare su verde acqua.
Dietro a noi l'Hermada, l'Impero, i Lupi, quell'Honved ricordata più per Ferenc Puskàs che per il fronte di questa guerra, i faggi della Bainsizza, le chiavi grandi per aprire Javorca.
Passato il ponte mettiamo piede in paese. Il museo è sulla sinistra. Ombrelloni verde Laško, oggi Heineken. Turisti venuti fin qui per far rafting. La piazza brulica. Fermento. È mai possibile che le persone vengano qui in larga misura per condividere il brivido delle rapide e non per la storia che questo luogo ha prodotto?
Birra davanti ai pezzi d'artiglieria a guardia del museo. Poi togliamo gli zaini. La strada porta verso l'ex valico italiano. Il desiderio di non interrompere questo viaggio verso l'ostello. "Did you book a room?".
Lo sfondamento a Caporetto fu cruciale. L'entrata a Kobarid lo è, nel momento in cui mi tornano in mente le parole di Željko Cimpri„, curatore del Kobariski Muzeum. «Se ho un sogno? Certo, ognuno di noi ne possiede uno. Il mio personale è quello di riuscire a tradurre le lettere dei soldati italiani in fuga dalla battaglia nella nostra lingua, lo sloveno. Così facendo, anche la nostra gente si renderebbe conto di quanto questi ragazzi soffrirono durante quei giorni, nell'ottobre del 1917». Kobarid, detta Caporetto, primavera di cent'anni dopo.
(8 - Fine. Le altre puntate sono state pubblicate il 28 giugno, il 5, 19, 26 luglio, l’1, 8 e 15 agosto)
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